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Costume e società
18 Ottobre 2025 - 11:30
Alla Festa del Cinema di Roma, tra i tappeti rossi e le proiezioni che si rincorrono a ritmo serrato, è arrivato un film che non fa rumore ma resta addosso. Si chiama Elegia sabauda e racconta Willie Peyote, all’anagrafe Guglielmo Bruno, torinese, classe 1985, cantautore e rapper che da anni smonta con sarcasmo e lucidità l’ipocrisia del nostro tempo. È diretto da Enrico Bisi, lo stesso che con Numero Zero aveva raccontato le radici del rap italiano, e che qui firma un ritratto intimo, ironico e sorprendentemente delicato di un artista che ha sempre preferito il dubbio alla posa.
Presentato al Teatro Olimpico Acea, nella sezione Best Documentary, Elegia sabauda è il contrario di quello che ci si aspetta da un film su un musicista. Niente montaggi frenetici, niente fan adoranti o ospitate illustri. Solo Willie, i suoi genitori, la band — Luca Romeo e Dario Panza, con lui fin dagli inizi — e la città che gli scorre nelle vene: Torino. Un luogo che nel film non è mai cornice, ma sostanza. C’è la Mole che osserva muta, ci sono i Murazzi che si specchiano nel Po, c’è la malinconia lucida di una città dove il sarcasmo è una forma di sopravvivenza e la sincerità passa sempre per la battuta.
Willie Peyote non recita, vive. Si lascia seguire da Bisi con quella naturalezza di chi non ha nulla da nascondere. “Io sono dalla parte delle verità”, dice davanti alla telecamera, con la consueta semplicità. E la verità, in Elegia sabauda, arriva a ondate: nei silenzi, negli sguardi, nelle piccole cose. In un caffè bevuto al bancone, in una pausa durante le prove, in un sorriso a metà tra ironia e malinconia. È un film che sembra respirare insieme al suo protagonista, che restituisce la misura di un uomo che non gioca mai a fare la star, nemmeno quando sul palco ci arriva davvero.
Il 2025 per lui è stato un anno di bilanci: quarant’anni compiuti, dieci dall’uscita di Educazione sabauda, l’album che lo ha fatto conoscere al grande pubblico. E ora questo film, che in qualche modo chiude un cerchio e ne apre un altro. “Con Enrico ci conosciamo da anni”, racconta Willie. “Ai tempi di Numero Zero gli avevo detto che avrebbe dovuto mettermi nel film. Deve avermi sentito ripetere la cosa così tante volte che alla fine ha risposto: ok, basta, ne facciamo uno su di te.” Da quella battuta è nato tutto, ma dietro la leggerezza si nasconde un’urgenza: quella di raccontare un artista che non ha mai voluto stare dentro le categorie.
A confermarlo è lo stesso Peyote, in un post pubblicato sui social alla vigilia della proiezione romana: «Conosco Enrico Bisi da una decina d’anni, da quando vidi il bellissimo documentario sul rap italiano che fece nel 2015 e ci trovammo insieme anche a qualche presentazione. Da allora siamo diventati amici e mi è capitato di fargli la battuta tipo “beh però mi potevi tirare in mezzo anche a me nel film eh”. Ma io pensavo fosse solo una battuta. E invece lui l’ha presa troppo sul serio e un anno e mezzo fa mi ha preso in contropiede con l’idea di fare addirittura un intero documentario tutto su di me. Ogni tanto ho il dubbio che abbia risposto con una battuta ancora più grossa e che semplicemente gli è poi sfuggita di mano. Sta di fatto che ora ci troviamo con sto film che racconta gli ultimi dieci o quindici anni della mia vita (e pure qualcosa della mia infanzia) e addirittura l’hanno preso alla Festa del Cinema di Roma. Se volete venire a vedere se sta battuta alla fine fa ridere o no per ora l’unica occasione è lì.»
La regia di Bisi è precisa, mai compiacente. Osserva, ascolta, si muove tra i luoghi di Willie come un amico che non vuole disturbare. “Non volevo fare un film con gli amici che ti dicono quanto sei bravo”, spiega il regista. “Che Willie sappia scrivere canzoni è evidente. Mi interessava invece mostrare chi è davvero, come vive, cosa c’è intorno a lui.” E in effetti nel film non ci sono vip né testimonial. Solo la realtà: le prove, i concerti, qualche bicchiere dopo le registrazioni, le conversazioni con i genitori. E in mezzo, una città che sembra respirare con lui.
Torino è ovunque. È nei suoni ovattati delle strade, nella luce che filtra tra i portici, nei pomeriggi grigi in cui tutto pare immobile. È la città del Toro, altra protagonista silenziosa del film. Si vede la cremagliera per Superga, Buongiornoche legge i nomi degli Invincibili il 4 maggio, un gol alla Juve visto dallo stadio come un piccolo riscatto personale. “Se lo avessimo presentato a Torino, sarebbe stato troppo facile”, dice Willie. “È un film su Torino, girato a Torino, con un torinese. Se lo proiettavamo pure lì, tanto valeva trovarsi tutti al bar e berne una insieme.” È la battuta perfetta per riassumere il suo spirito: autoironico, disincantato, eppure affezionato a ogni piega della sua città.
Ma Elegia sabauda non è solo un film su un artista o su Torino. È un film sul mestiere di essere sé stessi. Sulla difficoltà di mantenere un equilibrio tra coerenza e compromesso, tra pubblico e privato. Ci sono momenti teneri e improvvisi, come il dialogo con un gruppo di bambini di una scuola torinese che gli chiedono cosa sia la libertà. “Non avere paura”, risponde Willie, e in quella frase si sente tutta la sua filosofia di vita: la leggerezza come resistenza, la sincerità come forma di coraggio.
In una scena, un brano prende vita in studio: Sulla riva del fiume. Si vede la creazione, la prova, la fatica e la gioia del fare musica insieme. È uno dei momenti più belli del film, perché mostra ciò che di solito resta nascosto: il processo, la costruzione, la fragilità che precede la nota giusta. E poi ci sono i momenti bui, accennati con pudore, come la depressione, la fatica di sostenere il peso delle aspettative. “Vincere non è l’unica cosa che conta, ma perdere ti fa girare i coglioni”, dice a un certo punto, ridendo. Ma sotto la risata si intuisce la verità di chi ha dovuto imparare a convivere con la sconfitta.
Enrico Bisi racconta tutto questo con uno sguardo sobrio, senza enfasi. La sua regia è fatta di attese, di piccole sospensioni. Non cerca l’applauso, cerca la verità. Elegia sabauda diventa così un film sulla sincerità, quella che non ha bisogno di proclami. In un panorama musicale pieno di maschere, Willie Peyote sceglie di mostrarsi senza trucco. E questa semplicità, alla fine, commuove più di qualsiasi dramma costruito.
Quando scorrono i titoli di coda, resta la sensazione di aver conosciuto davvero qualcuno. Non il personaggio, ma l’uomo. Uno che ama Torino come si ama una madre complicata: con affetto, con ironia, con un filo di malinconia. Uno che non ha paura di dire quello che pensa, ma nemmeno di ammettere che a volte non sa che cosa pensare. Uno che sa ridere, anche di sé stesso.
Elegia sabauda è un film sul dubbio, sulla misura, sulla fatica di restare veri. È un film che parla piano, ma arriva lontano. E forse proprio in quella voce bassa, ironica e un po’ amara, si nasconde la cosa più rara: l’autenticità. Willie Peyote la incarna con naturalezza. È torinese fino al midollo, ma mai chiuso, mai compiaciuto. E come dice lui stesso, “la musica dovrebbe essere come la cacio e pepe: pochi ingredienti, ma viene diversa ogni volta”.
Forse è questa la sua vera eleganza sabauda: saper essere sempre se stessi, anche quando cambiano gli ingredienti.
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