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29 Agosto 2025 - 05:25
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Ieri, tra le 12 e le 14,30, la metropolitana di Torino ha partorito l’ennesimo capolavoro: 19 scale mobili e 5 ascensori bloccati. Un’orgia di ferraglia immobile, un festival dell’inerzia, una Biennale dell’inutilità. Una dimostrazione plastica di cosa significhi vivere a Torino nel 2025: si parla di intelligenza artificiale, di città smart, di auto elettriche e di metropoli del futuro, e intanto non funziona neppure un marchingegno con due pulsanti, “su” e “giù”. Di quei 24 impianti ribelli, otto restano ancora fermi oggi. Segno che, a differenza dei torinesi, le scale mobili non hanno alcuna fretta. Anzi, meditano, contemplano, forse praticano yoga.
Ma non è un episodio isolato: è la maledizione torinese, una tradizione radicata, quasi folkloristica, come il gianduiotto o il bicerin. Nel 2023, tra gennaio e aprile, i guasti sono stati 25 alle scale mobili e 23 agli ascensori: uno ogni tre giorni, una specie di novena sotterranea. E in quell’occasione GTT comunicò orgogliosa che la disponibilità media era del 94,2%. Tradotto dal burocratese: se prendi la metro tutti i giorni, uno su venti ti fai le scale a piedi. Un abbonamento occulto alla palestra, offerto senza supplemento. Perché Torino non ti porta al lavoro: ti porta al benessere.
Il 2024 è stato persino peggiore, una stagione sinfonica di disgrazie. A gennaio risultavano 21 scale mobili e 5 ascensori fuori uso. Ad aprile, un reportage contava quasi 20 scale ferme lungo la linea: Monte Grappa, Massaua, Carducci, Lingotto, Porta Nuova, Rivoli, Bengasi, Italia 61, Marche. Una tombola della sventura, da gridare “ambo” a ogni fermata. Poi arrivò settembre, la grande riapertura dopo un mese di stop estivo. Ci si aspettava un’infrastruttura scintillante, ringiovanita, ripulita. E invece i passeggeri si trovarono davanti 26 scale mobili e 2 ascensori già guasti. GTT spiegò che era colpa dei lavori, come se i lavori dovessero aggiustare e non rompere. Cinque erano rotti già da prima, tanto per ricordare che a Torino più si lavora, più si rompe.
Il 2025 si è guadagnato la palma d’oro della tragicommedia. A gennaio si è scoperto che a Pozzo Strada le scale esterne sono ferme da due anni. Due anni: abbastanza per crescere una barba da eremita, scrivere Guerra e Pace o laurearsi in ingegneria delle scale mobili, che qui sarebbe il corso di laurea più utile. Il sindaco Stefano Lo Russo ha detto che è “inaccettabile”. E poi? Nulla!
Ad aprile, sei scale ferme a Porta Susa: GTT si è perfino scusata con un cartello che pareva scritto da un fidanzato respinto: “Mi dispiace, non sono io, sei tu”. Poi, a giugno, un calo di tensione elettrica ha spento altre dieci scale in un colpo solo.
E infine eccoci a ieri: 19 scale mobili e 5 ascensori fermi tutti insieme. Una specie di record olimpico, da candidare al Guinness dei primati. Solo che non fa ridere, o meglio: fa ridere come fanno ridere le barzellette tristi, quelle che finiscono con un sospiro. Perché se altrove la scala mobile è simbolo di modernità, qui è diventata monumento all’immobilità.
Torino è ormai la città in cui prima di uscire di casa ci si domanda: “Funzionerà la metro? E se funziona la metro, funzionerà almeno una scala mobile?”. È la città dove un disabile o una mamma con passeggino devono consultare le stelle, come gli antichi navigatori, per sapere se riusciranno ad arrivare al piano strada. È la città in cui la pioggia non bagna, ma paralizza: dicono che ieri i guasti siano stati colpa del maltempo, come se l’acqua piovana avesse sciolto i gradini di zucchero.
Insomma, a Torino le scale mobili non salgono, non scendono, non trasportano: meditano, riflettono, contemplano. E noi con loro, mentre arranchiamo, con il fiatone, su per i gradini. Una città in cui il futuro è sempre rimandato e il presente pesa come un sacco di sabbia sulle spalle. La maledizione continua, eterna. E, sia chiaro, senza alcuna fretta di finire.
Non si sale e non si scende in metropolitana, e non si sale e non si scende nemmeno a Porta Susa, la stazione ferroviaria che avrebbe dovuto incarnare il futuro, e invece è diventata il mausoleo dell’inefficienza. Doveva essere la porta d’accesso all’Europa dei treni rapidi, e invece è la porta chiusa delle scale mobili ferme.
Già nel 2018 qualcuno l'aveva intuito di fronte a quelle due scale mobili che collegavano al parcheggio bloccate per settimane. Non un guasto passeggero, ma il preludio a un destino. Poi nel 2022 la rivelazione: su 75 impianti di risalita, 13 erano fermi, di cui 11 scale mobili su 47. La giustificazione? I pezzi di ricambio non arrivavano a causa della pandemia e della guerra in Ucraina. Come se Putin avesse ordinato un boicottaggio su Torino insieme all’invasione del Donbass.
E da allora non è andata meglio. Le segnalazioni si sprecano.“Ci scusiamo per il disagio”. Una litania ripetuta così tante volte che i torinesi ormai la leggono come se fosse parte dell’arredamento, come la segnaletica dei binari. Nel marzo 2024, poi nell’aprile 2025, poi a dicembre... e via cantando.
Il paradosso è tutto qui: mentre i Frecciarossa sfrecciano a trecento all’ora, sotto di loro i passeggeri arrancano alla velocità del gambero, trascinando valigie come sherpa tibetani. Si arriva da Milano in mezz’ora e si impiega lo stesso tempo per uscire dalla stazione.
E non è solo disagio, è umiliazione: la metro che non porta, e la stazione che non solleva. Benvenuti a Torino, la città di Stefano Lo Russo e della mobilità immobile, dove il futuro è rimasto fermo a metà rampa.
Oddio. Le scale mobili. Ancora loro. Sempre loro. È il 28 agosto 2025 e, come in un déjà-vu che si ripete da oltre un decennio, basta mettere piede a Torino per ritrovarsi nella stessa identica scena: gente che sbuffa, trolley da trascinare come muli da soma, ginocchia che gridano vendetta e i cartelli affissi da GTT, che si scusa per il disagio. Ci scusiamo per il disagio, recitano. Lo scrivono con una certa grazia poetica, come se a furia di ripeterlo quel disagio potesse trasformarsi in una carezza consolatoria.
Disagio. Una parola elegante per dire che ben 19 scale mobili – 19, non una, non due, 19 – erano contemporaneamente fuori uso. 19 ascensioni negate. 19 livelli di discesa all’inferno da affrontare a suon di quadricipiti. 19 monumenti all’inettitudine, al fatalismo infrastrutturale, a quella progettazione low-cost da catalogo che chiamiamo “modernità”.
Eppure la metropolitana è “nuova” così come lo è la stazione di Torino Porta Susa. Parliamo di quest'ultima. Dodici anni di vita, oggi tredici. Una ragazzina, in termini architettonici. Eppure già acciaccata, già malandata. Una vecchia decrepita travestita da adolescente. Forse perché nata a furia di promesse e tagli di nastro. Il 14 gennaio 2013 c’erano Mario Monti, Mauro Moretti, Roberto Cota e Piero Fassino a inaugurare tra flash e retorica. Un nuovo modo di viaggiare, dissero. Il futuro della mobilità, dissero.
E il futuro, oggi, sono le scale mobili ferme con sopra un cartello scritto male e appiccicato con lo scotch.
Le versioni si sprecano. C’è chi dice che GTT risparmi sulla manutenzione. C’è chi sostiene che la ditta sia pagata “a chiamata”, cioè finché nessuno urla, non si muove foglia. C’è chi giura che gli impianti siano stati scelti col solito criterio: spesa minima, effetto massimo davanti alle telecamere. Nessuno sa davvero dove stia il problema, ma tutti – e sottolineo tutti – sanno che le scale mobili non funzionano mai.
Un classico italiano. Le scale mobili come opera concettuale: esistono, ma non servono. Le guardi e pensi: forse oggi è la volta buona. E invece no. Sono lì, mute, immobili, solenni come sarcofagi tecnologici. Quando si degnano di partire, cigolano, tremano, fanno così paura che ti convinci a scendere a piedi comunque.
Altrove, nel mondo civile, funzionano. A Parigi, a Londra, a Madrid, perfino a New York. Portano la gente da un punto A a un punto B. Qui no. Qui servono a ricordarti che sei in Italia: il Paese dove il progresso si annuncia, ma non si realizza mai del tutto.
Eppure Porta Susa è un gioiello architettonico. Progettata da Jean-Marie Duthilleul, Etienne Tricaud, Silvio d’Ascia e Agostino Magnaghi, tutta vetro e acciaio, 385 metri di lunghezza e 19 di altezza. Doveva catturare la luce naturale, doveva autoprodurre l’80% dell’energia con i pannelli fotovoltaici, doveva "teletrasportarti"... Doveva, doveva, doveva.
Benvenuti nel “futuro” della mobilità italiana. Quello in cui il viaggio inizia con una scala mobile morta e finisce con un cartello che ti dice, con gentilezza beffarda: ci scusiamo per il disagio.
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