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Carnevale di Ivrea

L'ultimo respiro del Carnevale

Ivrea piange la fine della festa: tra fiamme, cenere e malinconia, il Carnevale muore ancora una volta. Ma sotto la cenere, il fuoco della tradizione continua a covare

Ivrea si spegne. Le strade che fino a poche ore fa erano un tripudio di grida, colori e battaglie d’arance ora sono immerse in un silenzio pesante, irreale. Il Carnevale, con il suo caos festoso, la sua energia sfrenata e la sua ribellione giocosa, ha emesso l’ultimo respiro. E come ogni cosa viva, ora deve morire.

Il corteo avanza con lentezza, un lungo serpentone di volti stravolti dalla stanchezza e dalla malinconia. La festa che ha incendiato l’anima della città sin dall’Epifania si sta spegnendo, divorata dal fuoco sacro degli Scarli.

 

Le fiamme si innalzano, avvolgendo i pali di ginepro in un rogo che sa di rito antico. L’aria si riempie dell’odore acre della fine, il cielo si tinge di rosso e nero, mentre la cenere si deposita sui vestiti, sui volti, nei cuori.

Uno dopo l’altro, i roghi segnano il destino del Carnevale. Lo Scarlo della Parrocchia di San Maurizio si accende, alto e minaccioso, mentre i fedeli guardano in silenzio. Segue quello di Sant’Ulderico, le fiamme avvolgono il palo con rapidità, crepitando nel buio. Poi, tra le ombre della notte, brucia lo Scarlo della Parrocchia di San Lorenzo, il fumo si alza e si disperde nei vicoli stretti.

Ma la processione della fine non è ancora terminata. Il cuore della città assiste alla condanna successiva: lo Scarlo della Parrocchia di San Salvatore. E poi, in Piazza di Città, il momento più atteso e solenne. L’aiutante del Generale consegna la sciabola alla Vezzosa Mugnaia, che la alza al cielo, come a sancire ancora una volta la vittoria del popolo sul tiranno, la libertà sulla sottomissione.

Per un ultimo istante, la folla si raccoglie attorno a lei, e con un moto d’orgoglio, quasi a voler sfidare la fine imminente, urla ancora una volta: «Viva la Mugnaia!».

La Marcia Funebre risuona grave, un lamento che accompagna gli ultimi istanti della festa. Il suono greve dei fiati e il battito cupo dei tamburi scandiscono il tempo della fine. Non è solo una musica, è il dolore di un'intera città che sa che il Carnevale deve morire per poter rinascere.

I passi si fanno pesanti, gli sguardi si abbassano. Qualcuno canta a mezza voce la Canzone del Carnevale, come si prega davanti a una tomba. Qualcun altro stringe gli amici in un abbraccio, come si fa dopo un funerale. La notte sembra più buia, il freddo più pungente. Il Carnevale sta svanendo, e con esso tutto ciò che ha portato.

In Piazza Ottinetti, arriva il momento dell’addio. Il Generale e lo Stato Maggiore, vestiti a festa ma con lo sguardo spento, si stringono a braccio e, con un impeto disperato, corrono verso il Palazzo Municipale. Come se quella corsa potesse fermare il tempo, come se potessero trattenere ancora per un istante una festa che si sta spegnendo. Ma il tempo non si ferma. Non lo fa mai.

Poi il silenzio. Il verbale di chiusura viene letto in Piazza di Città come un epitaffio scolpito nella pietra. È finita. Il Carnevale è morto. La folla si disperde, le fiaccole si spengono una dopo l’altra, il vento porta via gli ultimi cori e il profumo dolciastro della festa. Ivrea torna ad essere solo una città come le altre. I vicoli si svuotano, i bar abbassano le serrande, la vita riprende il suo corso ordinario.

Ma sotto la cenere, il fuoco continua a covare. Lo spirito del Carnevale non muore davvero. Per un anno intero resterà in letargo, annidato tra le pietre della città, nelle memorie di chi l’ha vissuto, nei sogni di chi lo aspetta. E quando tornerà, come ogni volta, sarà più vivo che mai.

Arvédze a giòbia ‘n bot.

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