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29 Dicembre 2024 - 16:12
Questa mattina, Torino si è svegliata con un peso sul cuore, ma anche con una determinazione incrollabile. Davanti alla Prefettura, una cinquantina di persone si sono radunate per chiedere giustizia, per urlare al mondo che Cecilia Sala non è sola. La giornalista italiana, detenuta in Iran senza accuse formali, rappresenta oggi non solo una collega privata della sua libertà, ma anche un simbolo della lotta contro l’oppressione di chi cerca di raccontare la verità.
L’iniziativa, promossa da associazioni come Marco Pannella, Adelaide Aglietta, Europa Radicale, Italia Liberale e Popolare, +Europa Torino, insieme a studenti ed esponenti delle campagne “Donna Vita Libertà” e dell’associazione Liberi Russi, ha dato voce a una comunità che non vuole tacere. Il silenzio, dicono, sarebbe una colpa imperdonabile. E oggi, sotto il cielo grigio di Torino, quella piazza ha risuonato di un’unica, potente richiesta: libertà.
Tra i presenti, Igor Boni, esponente di Europa Radicale, ha preso la parola con fermezza: “Sappiamo che il governo italiano ha chiesto di non manifestare, ma noi disobbediamo. Non possiamo restare in silenzio. Quando una nostra giornalista, una cittadina di un Paese democratico, viene arrestata senza accuse in una dittatura come l’Iran, l’ultima cosa da fare è tacere. Non siamo qui contro il governo italiano, ma per chiedergli di fare l’impossibile”.
Le sue parole, accolte da applausi e lacrime, sono state un richiamo alla coscienza collettiva, un invito a non abbassare mai la guardia di fronte alle ingiustizie.
La detenzione di Cecilia Sala non è un caso isolato. Ahmadreza Djalali, medico e ricercatore iraniano-svedese che ha lavorato all’Università del Piemonte Orientale, è detenuto nello stesso carcere, accusato di spionaggio e condannato a morte. Boni ha ricordato la sua vicenda: “Djalali è lì, nello stesso luogo dove oggi c’è Cecilia Sala. È un carcere dove dissidenti iraniani e stranieri sono privati di tutto: libertà, dignità, speranza. Non possiamo ignorare queste storie, perché ci riguardano tutti”.
Il parallelo è straziante e inevitabile. Torino, città che ha ospitato la ricerca e il sapere di Djalali, oggi si trova a lottare per un’altra vittima dell’oppressione iraniana. E così, la protesta diventa anche un modo per ricordare che la battaglia per i diritti umani non ha confini.
Tra i manifestanti, anche Silvio Viale, consigliere comunale e figura di spicco di Europa Radicale, ha posto l’accento sull’importanza di una risposta unitaria: “Ci sono rappresentanti di varie provenienze politiche, ed è questo il messaggio più forte. Al ministro Tajani facciamo i nostri migliori auguri, perché la diplomazia deve essere coraggiosa e ampia: non solo italiana, ma europea. L’Europa deve alzare la voce”.
L’appello di Viale è un grido di unità: la libertà di una persona non può essere solo una questione nazionale. È una responsabilità collettiva, che deve mobilitare tutte le istituzioni europee.
In questa manifestazione, Torino ha dimostrato di essere molto più di una città: è una comunità solidale, capace di superare differenze politiche e geografiche per unirsi in nome di un principio universale. La presenza di associazioni, studenti, cittadini comuni e politici locali è la prova che la solidarietà può abbattere qualsiasi muro.
Non si trattava solo di Cecilia Sala. Era un appello per tutti coloro che, in Iran e altrove, sono privati della libertà per aver avuto il coraggio di raccontare la verità. Era un messaggio di speranza per i dissidenti, i prigionieri politici, i giornalisti detenuti. Ed era un avvertimento: non ci fermeremo.
Alla fine della manifestazione, il silenzio ha lasciato spazio alla determinazione. I volti dei manifestanti, segnati dal freddo e dalla fatica, raccontavano una sola cosa: non molleranno. Torino ha dato il via a un movimento che non vuole fermarsi qui. Le parole risuonate davanti alla Prefettura non cadranno nel vuoto, ma continueranno a viaggiare, a ispirare, a lottare.
Perché la libertà non è negoziabile. E finché Cecilia Sala non sarà libera, nessuno sarà davvero libero.
Centinaia di persone, soprattutto giovani, hanno partecipato nel primo pomeriggio a Torino alla 'Marcia della pace' promossa dal Sermig (Servizio missionario giovanile) in vista del nuovo anno. Il corteo '2025 Passi di Pace" è partito dalla parrocchia Maria Regina della Pace, in corso Palermo, per raggiungere il centro della città, in piazza Castello.
Nel corso della manifestazione, nella quale sono stati esposti solo simboli di pace, sono stati raccolti generi alimentari a lunga conservazione destinati alle missioni umanitarie promosse dall'Arsenale della Pace di Torino.
Le altre tradizionali iniziative del Sermig per Capodanno si terranno il 31 dicembre: il Cenone del Digiuno, all'Arsenale della Pace, e un'altra Marcia della Pace.
Nell'ex fabbrica di armi di Borgo Dora sono attesi tra gli ospiti, Laura e Amerigo Basso, genitori di Sammy, il giovane biologo malato di progeria morto a ottobre. I partecipanti saranno invitati a devolvere l'equivalente che avrebbero speso per il cenone di Capodanno ai progetti di solidarietà del Sermig in Italia e nel resto del mondo.
La serata si concluderà con la partecipazione alla Messa celebrata dall'arcivescovo, cardinale Roberto Repole, nel Duomo di Torino a partire dalle 23,30.
"In un mondo che fa fatica a sperare - spiegano Ernesto Olivero e Rosanna Tabasso del Sermig - vogliamo ricordare che la pace inizia dalle vite di ognuno. È la luce che annulla il buio. Ognuno di noi può fare la propria parte".
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