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Gaza: c'è un genocidio in corso, ma nessuno lo ammette

Nella Striscia di Gaza, milioni di persone lottano ogni giorno senza acqua, elettricità e cibo, sopravvivendo in un incubo che sembra non avere fine.

La Striscia di Gaza è oggi un luogo dove la sopravvivenza è diventata un atto di resistenza, una guerra che non si combatte solo con le armi, ma con la fame, la sete, e il buio. Un assedio invisibile, fatto di bisogni primari negati e di un’interminabile, straziante attesa.

Ogni giorno a Gaza, milioni di uomini, donne e bambini si svegliano senza sapere se arriveranno alla notte, se avranno un sorso d'acqua da bere o una coperta per proteggersi dai venti freddi che attraversano le strade distrutte. La loro casa è un carcere a cielo aperto, un luogo dove ogni luce si è spenta e la speranza stessa sembra soffocata dal silenzio dell'indifferenza.

Dall’11 ottobre 2023, la Striscia è immersa in un’oscurità impenetrabile. Israele ha interrotto ogni fornitura di elettricità e, nel giro di pochi giorni, le riserve di carburante, ultimo baluardo per la centrale elettrica, si sono esaurite. Ora Gaza è avvolta nel buio, un buio così denso da sembrare eterno. Niente più lampadine nelle case, niente più luci nei rifugi: solo la luna e il cielo cupo illuminano le rovine, ma anche quella luce tenue è spezzata dai lampi lontani delle bombe. Senza elettricità, anche la voce di chi chiede aiuto si è spenta; i telefoni sono muti, le radio tacciono. I pazienti negli ospedali, i neonati nelle incubatrici, i malati gravi: ogni respiro è una lotta contro il tempo, una lotta che si combatte nel buio più totale.

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Senza energia, anche l’acqua è divenuta un bene introvabile. Gli impianti di desalinizzazione, unici sistemi per rendere l’acqua salmastra del mare potabile, sono fermi. Le pompe idriche non funzionano. I rubinetti hanno smesso di gocciolare, e ciò che resta sono poche riserve, inquinate e pericolose. Famiglie intere sono costrette a bere acqua che arriva dalle pozze stagnanti delle strade o dalle poche cisterne che ogni tanto ancora si vedono in città. Alcuni padri, disperati, immergono i bicchieri nei canali di scolo, nei serbatoi abbandonati: acqua torbida, amara, spesso contaminata, che viene data ai bambini nella speranza che almeno calmi la loro sete.

La sete e la fame non sono i soli nemici: senza acqua pulita, le malattie si sono diffuse con una rapidità implacabile. Il sovraffollamento nei campi profughi e l'assenza di servizi igienici hanno portato a un'esplosione di casi di epatite A. In un solo mese, la malattia si è diffusa come un fuoco incontrollabile, contagiando migliaia di persone, soprattutto bambini, troppo deboli per difendersi. Nei vicoli stretti di questi campi, ogni passo è una lotta contro la sporcizia, ogni respiro è un rischio, e i bambini giocano nella polvere, ignorando il pericolo invisibile che li circonda.

Non ci sono farmaci, non ci sono medici sufficienti per curare tutti. Le scorte di cibo sono scarse, ridotte a una bottiglia d'acqua e una scatoletta di tonno da dividere, spesso, tra sei o sette persone. Ogni pasto è un sacrificio, un piatto vuoto, un morso che una madre lascia al figlio, un padre che rinuncia per sfamare i suoi piccoli. Eppure, si continua a sperare: sperare che il giorno successivo sia diverso, che qualcuno si accorga di loro, che un camion di aiuti riesca a varcare il confine.

E in questo deserto di disperazione e isolamento, ciò che resta è la paura. Una paura incessante, che non conosce tregua, che cresce e si nutre del rumore delle esplosioni in lontananza, dei muri che tremano, delle finestre che si spezzano.

La paura che anche il rifugio più sicuro possa trasformarsi in una trappola, che il prossimo bombardamento colpisca proprio quella casa, quella strada, quella scuola.

Ogni madre stringe i propri figli, tentando di soffocare i loro singhiozzi nel suo petto, ogni bambino dorme con le mani premute sulle orecchie, cercando di bloccare il fragore che scuote la notte.

Mentre le settimane passano, la comunità internazionale osserva, raccoglie dati, valuta l’impatto, ma Gaza resta sola. La voce dei suoi abitanti sembra perdersi in un silenzio assordante, come se il loro dolore fosse un eco lontano, quasi intangibile, dimenticato. Ma per loro, ogni minuto è un’altra battaglia, ogni giorno è una preghiera, una lotta, un grido.

La guerra nella Striscia di Gaza è una guerra che non ha pietà, che colpisce i più deboli e lascia segni indelebili nell’anima di chi la vive. E mentre il mondo guarda, chiuso nelle sue sicurezze, a Gaza si continua a resistere, si continua a vivere, anche se vivere, ormai, significa solo sopravvivere.

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