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Monastero di Lanzo
29 Agosto 2024 - 12:58
"Un altro inverno così, non lo passeremo". E' scoppiata la protesta dei migranti a Chiaves, il micro borgo delle Valli di Lanzo dove circa un anno fa cinquanta profughi sono arrivati, ospiti di un Cas gestito dalla cooperativa Sanitalia.
Da oltre dieci giorni il ritmo dei tamburi, la musica, le urla di questi giovani, squarciano il silenzio di quest'oasi di pace. Hanno iniziato a protestare lunedì 19 agosto e non hanno più smesso. Ora protestano anche di notte.
E' il loro modo di farsi ascoltare. Per loro, quassù, in questo micro borgo senza neppure un negozio, dove l'inverno picchia dura e la stazione ferroviaria più vicina è a dieci chilometri. La situazione è diventata insostenibile
Era l’agosto del 2023 quando, quasi senza preavviso, 50 richiedenti asilo – per lo più giovani uomini provenienti dall'Africa e dal Bangladesh – sono arrivati a Chiaves, in quel condominio giallo composto da nove appartamenti, che affaccia sulla Valle. La decisione della Prefettura di Torino di trasferirli in questa piccola località dove i residenti sono un centinaio, di cui solo una trentina effettivi, aveva subito sollevato un acceso dibattito sull'adeguatezza delle scelte istituzionali in materia di gestione dell'accoglienza.
Il sindaco di Monastero di Lanzo, Maurizio Togliatti, all'epoca aveva cercato di opporsi anteponendo al progetto le criticità del luogo. "Capisco che c'è una situazione problematica nazionale e molti comuni soprattutto del Nord stanno vivendo questa realtà," aveva dichiarato, "ma i servizi nel nostro Comune sono carenti: il posto più vicino dove ci sono maggiori opportunità è Lanzo. Non so perché sia stato scelto proprio Chiaves, ma comunque se ci sarà più supporto da parte delle istituzioni collaboreremo per far sì che questi ragazzi possano restare ed essere accolti nel migliore dei modi".
Il sindaco Maurizio Togliatti
Queste parole, però, non hanno trovato terreno fertile tra gli abitanti di Chiaves, che già allora avevano espresso timori e perplessità. Un anno dopo, quegli stessi timori si sono trasformati in realtà tangibili.
Per i 50 migranti, l'ultimo anno è stato duro, segnato dall'isolamento e dalle difficoltà logistiche. Chiaves, con la sua bellezza incontaminata e il suo ritmo di vita lento, è diventato per loro una sorta di prigione a cielo aperto. Le distanze dai principali centri abitati, il rigore dell'inverno, la mancanza di servizi essenziali hanno reso la vita quotidiana una lotta costante.
"Si fanno 10 chilometri per andare a prendere un treno", racconta un abitante del borgo, descrivendo la fatica di quei giovani costretti a percorrere a piedi lunghe distanze per raggiungere la stazione ferroviaria più vicina a Lanzo Torinese. Per chi è abituato a muoversi con facilità nelle città, queste distanze possono sembrare insignificanti, ma per chi è bloccato in un microborgo senza mezzi, ogni chilometro diventa un ostacolo insormontabile.
La tensione accumulata nei mesi si è riversata in una protesta improvvisa e rumorosa, iniziata lunedì 19 agosto. I migranti, stanchi di sentirsi abbandonati, hanno deciso di manifestare il loro malcontento attraverso canti, tamburi e slogan. Una protesta che ha scosso la tranquillità di Chiaves, un luogo dove il silenzio della montagna è interrotto solo dal suono del vento tra gli alberi.
I manifestanti hanno iniziato la loro protesta nello stabile che li ospita, per poi dirigersi verso la piazza del paese, il cuore della comunità. Da allora, il piccolo borgo è stato invaso da un incessante rumore, di giorno e di notte.
Il sindaco Togliatti è intervenuto più volte, cercando di mediare e riportare la calma. "Li ho incontrati", ha raccontato, "vogliono farsi sentire, vogliono esprimere le loro richieste. Ho cercato di fargli capire che la Prefettura si è già attivata, ma occorre avere pazienza, ci sono tempi da rispettare, procedure".
Nonostante queste parole, la protesta non accenna a placarsi, alimentata da un senso di frustrazione che sembra crescere ogni giorno di più.
Se da un lato i migranti esprimono il loro disagio, dall’altro lato gli abitanti di Chiaves vivono questi giorni con un crescente senso di insicurezza e tensione. "Non è una questione di razzismo, per carità - allarga le braccia un'abitante del borgo -. Ma chiedevamo un incontro che non si è mai tenuto. Avevamo diritto di sapere, di capire. Parlavano tutti di integrazione. Ma cosa è stato fatto? Ecco i risultati di una scelta avventata".
I migranti scesi a Bari dalla Geo Barents
Le parole degli abitanti riflettono un sentimento di abbandono, una percezione di essere stati lasciati soli a gestire una situazione che va oltre le loro capacità. La mancanza di dialogo e di supporto ha scavato un solco profondo tra la comunità locale e i migranti, alimentando paure e incomprensioni.
Chiaves, un luogo che prima di tutto questo era sinonimo di pace e tranquillità, si trova ora divisa tra chi prova compassione per i giovani migranti e chi, invece, teme per la sicurezza e la stabilità della propria vita quotidiana.
Mentre le proteste continuano a scandire le giornate e le notti del borgo, il futuro di Chiaves rimane incerto. Le istituzioni locali e nazionali sono chiamate a trovare una soluzione che possa ristabilire l'armonia in questa comunità ferita.
La storia di Chiaves è solo uno dei tanti esempi di come le politiche migratorie possano avere effetti profondi e duraturi su piccole comunità che non dispongono delle risorse necessarie per gestire l'accoglienza. La sfida, ora, è quella di trasformare questa crisi in un'opportunità, di costruire un percorso di integrazione che possa andare oltre le paure e le divisioni.
Chiaves, con la sua storia millenaria e la sua resilienza, ha la possibilità di diventare un simbolo di come l'integrazione possa essere realizzata anche nei contesti più difficili. Ma per farlo, è necessario che tutti, dalle istituzioni ai singoli cittadini, lavorino insieme con un obiettivo comune: restituire a questo microborgo la pace e la serenità che merita.
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