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04 Marzo 2024 - 20:04
Non è bastata una giornata di sole a far scendere l’allerta meteo che da venerdì scorso preoccupa tutto il Canavaese e le sue Valli.
Da domani, martedì 5 marzo, una nuova perturbazione è pronta a colpire il Piemonte con un rischio molto elevato di valanghe in montagna e di esondazioni e allagamenti a valle.
Per avere un quadro più chiaro della situazione, abbiamo intervistato il direttore generale di Arpa Piemonte, l’ingegner Secondo Barbero, che, con la struttura di cui è a capo, è in prima linea nel monitoraggio e nella previsione dei rischi legati ad ambiente e territorio.
Quali sono state le principali criticità della prima ondata di maltempo, nelle Valli del Canavese?
“Ci sono stati valanghe che hanno interessato la viabilità e che sono state tempestivamente ripristinate. Situazioni di pericolo in particolare, fortunatamente non se ne sono verificate, ma c’è stata una gestione molto attenta di quel rischio valanghe che qui da noi non era usuale. Negli ultimi vent’anni questo è stato l’evento più intenso che ha colpito il Canavese”.
Per le prossime ore cosa dobbiamo aspettarci?
“Lunedì abbiamo avuto una pausa che ci ha consentito di assistere ad un abbassamento dei livelli dei fiumi. Da martedì 5 è atteso un nuovo peggioramento, meno marcato di quello dello scorso fine settimana con piogge più intermittenti e meno diffuse che porteranno però ad un nuovo aumento del livello di attenzione sia per quanto riguarda le nevicate in montagna, che sui corsi d’acqua minori”.
La molta pioggia caduta in poche ore ha riaperto la questione invasi. Si è detto che se fossero stati realizzati, molta di quell’acqua non sarebbe andata “sprecata”, ma raccolta in vista della stagione calda e siccitosa.
Lei cosa ne pensa?
“Dopo la siccità del 2022 è parso chiaro un po’ a tutti la necessità, anche nelle nostre zone ricche di acqua, di ragionare in prospettiva per realizzare delle nuove opere che possano consentire di tenere l’acqua quando è disponibile. Da un lato serve per fronteggiare la siccità. Dall’altro è uno strumento per trattenere l’acqua quando ce n’è troppa, a difesa del rischio idrogeologico. Sicuramente è un tema importante su cui ragionare tenendo conto anche dell’impatto di queste opere sul territorio e la sicurezza. E’ un argomento all’ordine del giorno sul quale si attendono delle risposte nei prossimi anni”.
Progetti come l’invaso di Cobanera a Viù, nelle Valli di Lanzo, o quello pensato in Val Soana sono stati pensati molto tempo fa.
Perché non sono mai decollati?
“Sono nel cassetto da molti anni. In passato il problema poteva essere il finanziamento e il coinvolgimento degli attori locali. Oggi, però, i finanziamenti non sono più un grosso problema grazie ai fondi nazionali ed europei. Bisogna riprendere questi progetti con un grosso coinvolgimento degli attori e delle comunità locali che devono essere chiamati a dare il loro contributo”.
Nel Nord della Francia, gli agricoltori stessi sono protagonisti della raccolta dell’acqua con piccoli bacini realizzati nelle aziende.
E’ un modello perseguibile?
“In passato ragionavamo molto su grandi impianti che avessero una funzione anche plurima. Il classico idroelettrico di montagna con una funzione idropotabile per l’irriguo. E questo è una strada. Ma certamente quella di realizzare impianti più piccoli in un territorio più vicino ai territori dove c’è richiesta di acqua, può essere una strada percorribile. Due modelli che possono essere gestiti in parallelo. Gli attori coinvolti sono diversi . Nei piccoli invasi l’utilizzatore è il primo attore. Bisogna sempre tenere presente che la gestione di queste opere deve avvenire in sicurezza. Gli invasi possono rappresentare un’opportunità, ma c’è da considerare fin dalla progettazione la loro sostenibilità anche in termini di gestione”.
Il Canavese è un territorio con una grande fragilità di tipo alluvionale. Trent’anni fa, l’alluvione del 1994, poi quella del 2000.
La presenza di grandi invasi può rivelarsi una criticità?
“Se ben gestiti no. Un’opera ben progettata e ben gestita di fatto ha una funzione positiva anche nel trattenere una quota parte di quell’acqua. Soprattutto quello che viene chiamato dal punto di vista tecnico “il collo della piena”. La piena viene ridotta perché l’acqua viene trattenuta. Ecco perché queste opere potrebbero dare un contributo positivo anche per la difesa dai rischi da alluvione”.
Lei che è in prima linea nell’osservazione dei cambiamenti climatici, sul nostro territorio è così lampante la situazione?
“In questi giorni abbiamo chiuso il rapporto sul bilancio dell’inverno. E’ emerso che l’inverno 2023-2024 è stato il più caldo da quando sono iniziate le misurazioni. Questo rappresenta un elemento importante per dire come, soprattutto sulle Alpi e nei territori montali, i cambiamenti climatici stiano avendo gli impatti maggiori sui quali bisognerà agire per cercare di adattarsi a questi nuovi scenari climatici”.
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