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Settimo Torinese
09 Gennaio 2023 - 00:21
Le grandi penne multicolori che fecero la fortuna di molte aziende di Settimo Torinese
Nella Settimo del ventesimo secolo, il periodo tra la metà degli anni Cinquanta e l’ultimo scorcio del decennio seguente fu testimone di una crescita demografica senza precedenti e di un’incontrollata espansione edilizia. La popolazione, che nel 1959 contava 16 mila abitanti, superò i 18 mila nel 1961, i 26 mila nel 1964 e i 36 mila nel 1968. Il vertiginoso aumento demografico era dovuto all’ondata migratoria che da varie parti della penisola, soprattutto dalle regioni meridionali, si riversava nella conurbazione torinese.
Primi anni Settanta del XX secolo, confeioni di penne a sfera prodotte a Settimo
Per tanti immigrati, l’alloggio dignitoso e il posto sicuro nella grande industria, con regolare libretto di lavoro, assistenza sanitaria e assegni familiari, furono la meta di un’avvilente via crucis. All’esperienza delle soffitte, dei casolari fatiscenti e della coabitazione forzata si accompagnava quella del lavoro nero nei cantieri edili e nelle «bòite» clandestine. In attesa di un impiego più stabile e remunerativo, alcuni trovarono una prima occupazione nel settore della penna. Ma i salari erano troppo modesti: nel caso di un solo stipendio, ben difficilmente un operaio riusciva a mantenere una famiglia numerosa. Basti dire che nel 1967, dopo gli ultimi aumenti sindacali, la retribuzione media di un lavoratore del settore non superava le 65 mila lire mensili. Per tale motivo, i posti di lavoro nell’industria della penna erano poco ambiti e costituivano soltanto un ripiego temporaneo.
Le situazioni peggiori, tuttavia, si riscontravano nell’esteso sottobosco dei laboratori clandestini che nascevano dall’oggi al domani per svolgere attività di stampaggio a iniezione, di assemblaggio e di confezionamento delle penne. Ancora nel 1977, dopo l’ennesima irruzione dei carabinieri in alcune «bòite», il quotidiano «Gazzetta del Popolo» ritraeva una realtà praticamente immutata rispetto al decennio precedente. «La grande azienda – scriveva l’articolista – cede il montaggio fuori fabbrica a terzi che, registrandosi come artigiani, fanno lavorare dieci, venti persone, spesso senza contratto, non pagando più di una lira a penna e tenendo per sé la differenza (sulle cinque lire) rispetto a quanto passa l’azienda».
Ormai i nuovi macchinari e i relativi stampi a figure multiple, introdotti a partire dalla metà degli anni Cinquanta, consentivano all’industria locale di sfornare milioni di pezzi giornalieri. Per piazzare simili quantitativi di merce, conquistando spazi di mercato in tutto il mondo, urgeva una politica di assoluto contenimento dei costi. Si tenga inoltre presente che mancavano automatismi per l’assemblaggio completo delle penne; la realizzazione di una macchina in grado di montare una biro a quattro o a sei colori di scrittura – per tacere dei modelli a dieci – oltre a essere impensabile per l’epoca a motivo delle difficoltà tecniche, avrebbe comportato investimenti assolutamente proibitivi. Né va sottovalutato il fatto che gli imprenditori locali non usufruirono mai di sovvenzioni pubbliche per compensare gli immobilizzi di capitale derivanti da un continuo ammodernamento degli impianti.
Di lì la scelta di ricorrere su ampia scala ai lavoranti a domicilio per quelle mansioni che non richiedevano l’impiego di macchinari e di manodopera qualificata. Essendo gli anni della grande immigrazione dal Veneto e dal Meridione, in Settimo e nei dintorni non mancavano le famiglie disposte ad assemblare penne per pochissimi soldi, senza contratti e previdenze sociali.
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