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Smart city, cervelli spenti: il futuro di Torino visto dal trentesimo piano. Grattacieli per pochi, buche per tutti

Torino sogna di diventare una smart city modello, ma tra studentati di lusso, piani regolatori firmati da Bloomberg e periferie dimenticate, rischia di trasformarsi in un grande cantiere del marketing urbano: scintillante in alto, dissestata in basso

Smart city, cervelli spenti: il futuro di Torino visto dal trentesimo piano. Grattacieli per pochi, buche per tutti

Il sindaco Stefano Lo Russo

Torino cambia pelle. O meglio: cambia trucco. Sotto la cipria digitale e la matita “green”, la città si guarda allo specchio e si racconta più moderna, più sostenibile, più connessa. Almeno così dicono le slide del nuovo Piano Regolatore Generale, un documento che più che un piano sembra un sogno — o, a seconda dei punti di vista, un’illusione collettiva con vista grattacielo.

In questa nuova visione del mondo, Torino si immagina come una capitale europea dell’innovazione, dove i grattacieli nascono come funghi e le residenze universitarie di lusso spuntano accanto ai poli accademici, pronte ad accogliere studenti “globali” dal portafoglio ben fornito. Gli altri, quelli normali, possono sempre continuare a condividere un monolocale in Barriera di Milano con un frigorifero del 1987 e il riscaldamento a turni. È la meritocrazia, bellezza.

Dietro la spinta visionaria del nuovo PRG, c’è un nome che suona bene, internazionale, un po’ Manhattan e un po’ Silicon Valley: Bloomberg Philanthropies, la fondazione del magnate americano Michael R. Bloomberg, ex sindaco di New York e mecenate globale delle “smart cities”. Il suo marchio si vede ovunque: nella retorica digitale, nelle parole d’ordine della sostenibilità, nei progetti di rigenerazione che somigliano sempre più a operazioni di marketing urbano. Torino, insomma, entra ufficialmente nel club delle città che vogliono essere tutto tranne che se stesse.

E allora via con i grattacieli “intelligenti”, le piste ciclabili che portano (forse) da qualche parte, i quartieri “green” costruiti su ex aree industriali, e naturalmente gli immancabili “studentati premium”, perché l’istruzione oggi non è un diritto, ma un’esperienza di lusso. Con terrazza panoramica, palestra integrata e lavanderia automatica con app dedicata. Gli studenti veri, quelli che lavorano nei call center per pagarsi l’affitto, ringraziano e continuano a farsi il caffè con la moka.

Torino

Si chiama “Torino Smart City”. Ma nella città reale, quella dove gli autobus si rompono, le buche diventano crateri e i servizi sociali faticano a sopravvivere, di smart c’è ben poco. È la solita storia: mentre si parla di futuro, il presente cade a pezzi. Si inaugurano torri di vetro e si chiudono consultori; si installano sensori per monitorare la qualità dell’aria, ma si tagliano fondi ai centri per i disabili. È il progresso, dicono.

Il sindaco Stefano Lo Russo e l’assessora Chiara Foglietta parlano con entusiasmo di una “città che cambia, che guarda avanti, che investe nei giovani”. E certamente Torino guarda avanti — talmente avanti che rischia di non accorgersi più di chi resta indietro. I rendering mostrano una città perfetta: verde, efficiente, luminosa. Peccato che nei quartieri veri, da Mirafiori a Falchera, le luci si spengano alle dieci di sera e i marciapiedi restino rotti per anni.

L’idea di fondo è chiara: trasformare Torino in una “vetrina internazionale”. Ma come tutte le vetrine, ciò che conta è l’effetto ottico, non il contenuto. Dietro i palazzi in vetro e acciaio, restano le stesse storie di precarietà, disoccupazione e povertà che nessun piano regolatore potrà cancellare. E mentre si sogna di attrarre investitori, i torinesi continuano a fare i conti con bollette impazzite, stipendi da fame e affitti inaccessibili.

Nel frattempo, la Torino manifatturiera, quella che ha fatto la storia, si spegne piano piano. I capannoni si svuotano, le fabbriche si spengono, ma almeno — ci assicurano — saranno “rigenerate” in centri culturali, hub creativi e coworking sostenibili. Tutti rigorosamente arredati in stile minimal e frequentati da startupper in bici elettrica. Una bella cartolina, certo, ma senza chi ci lavorava dentro.

E che dire delle periferie? Quelle che non finiscono mai nei depliant del futuro, ma che continuano a essere lì, ai margini, a fare i conti con le stesse difficoltà di vent’anni fa. Quartieri dove il welfare è ormai un ricordo e i giovani scappano appena possono. Ma tranquilli: arriveranno presto i “progetti di riqualificazione integrata”. Magari un bel murale, qualche panchina di design, e via: problema risolto.

Il paradosso è che Torino, pur di sembrare moderna, rischia di diventare finta. Si organizzano convegni sull’innovazione urbana con titoli altisonanti tipo “Reinventare la città post-industriale”, ma spesso gli unici “cittadini” presenti sono consulenti, architetti e assessori. Chi abita davvero quei quartieri, invece, non viene mai invitato. Forse perché stonerebbe con l’estetica delle slide in PowerPoint.

E poi c’è la retorica “green”. Ogni progetto oggi deve esserlo, anche quando non lo è. Cementificare un’area? Tranquilli, se ci pianti un albero accanto, è “verde”. Costruire torri di lusso? Nessun problema, basta scrivere “a impatto zero”. È la magia del linguaggio: Torino si trasforma in un laboratorio di sostenibilità… a parole. Nella realtà, le polveri sottili restano, il traffico pure, e le ciclabili finiscono ancora nel nulla.

Ma la parola chiave è una sola: smart. È la formula magica che risolve tutto. Smart housing, smart mobility, smart lighting, smart everything. Peccato che per molti cittadini la vita resti tutt’altro che smart: stipendi bassi, servizi carenti e un senso crescente di esclusione. Forse, più che di intelligenza artificiale, servirebbe un po’ di intelligenza politica.

Torino ha sempre saputo reinventarsi, è vero. Ma questa volta sembra più un lifting che una rinascita. La città si veste di futuro, ma sotto resta piena di rughe. E se le nuove torri vogliono rappresentare l’identità contemporanea, rischiano invece di diventare monumenti all’ineguaglianza. Dal trentesimo piano la vista è meravigliosa, ma da terra si continua a vedere la stessa polvere.

La domanda, alla fine, è semplice: chi vivrà in questa nuova Torino? Una città sempre più vetrina, sempre meno casa. Dove l’innovazione sembra un privilegio e la modernità un biglietto a pagamento. Se il futuro deve essere questo, allora qualcuno resterà per forza nel passato — o meglio, nel presente che nessuno vuole più guardare.

Insomma, il nuovo PRG promette molto e forse realizzerà poco. Per ora, Torino resta sospesa tra la nostalgia della sua identità operaia e la smania di sembrare cosmopolita. Tra le torri che salgono e le periferie che affondano. Tra chi costruisce e chi, come sempre, resta a guardare. E mentre i potenti parlano di “visione”, i torinesi, quelli veri, aspettano ancora che qualcuno si degni di guardare dove mettono i piedi.

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