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20 Ottobre 2025 - 00:18
Il sindaco Stefano Lo Russo
Torino cambia pelle. O meglio: cambia trucco. Sotto la cipria digitale e la matita “green”, la città si guarda allo specchio e si racconta più moderna, più sostenibile, più connessa. Almeno così dicono le slide del nuovo Piano Regolatore Generale, un documento che più che un piano sembra un sogno — o, a seconda dei punti di vista, un’illusione collettiva con vista grattacielo.
In questa nuova visione del mondo, Torino si immagina come una capitale europea dell’innovazione, dove i grattacieli nascono come funghi e le residenze universitarie di lusso spuntano accanto ai poli accademici, pronte ad accogliere studenti “globali” dal portafoglio ben fornito. Gli altri, quelli normali, possono sempre continuare a condividere un monolocale in Barriera di Milano con un frigorifero del 1987 e il riscaldamento a turni. È la meritocrazia, bellezza.
Dietro la spinta visionaria del nuovo PRG, c’è un nome che suona bene, internazionale, un po’ Manhattan e un po’ Silicon Valley: Bloomberg Philanthropies, la fondazione del magnate americano Michael R. Bloomberg, ex sindaco di New York e mecenate globale delle “smart cities”. Il suo marchio si vede ovunque: nella retorica digitale, nelle parole d’ordine della sostenibilità, nei progetti di rigenerazione che somigliano sempre più a operazioni di marketing urbano. Torino, insomma, entra ufficialmente nel club delle città che vogliono essere tutto tranne che se stesse.
E allora via con i grattacieli “intelligenti”, le piste ciclabili che portano (forse) da qualche parte, i quartieri “green” costruiti su ex aree industriali, e naturalmente gli immancabili “studentati premium”, perché l’istruzione oggi non è un diritto, ma un’esperienza di lusso. Con terrazza panoramica, palestra integrata e lavanderia automatica con app dedicata. Gli studenti veri, quelli che lavorano nei call center per pagarsi l’affitto, ringraziano e continuano a farsi il caffè con la moka.
Si chiama “Torino Smart City”. Ma nella città reale, quella dove gli autobus si rompono, le buche diventano crateri e i servizi sociali faticano a sopravvivere, di smart c’è ben poco. È la solita storia: mentre si parla di futuro, il presente cade a pezzi. Si inaugurano torri di vetro e si chiudono consultori; si installano sensori per monitorare la qualità dell’aria, ma si tagliano fondi ai centri per i disabili. È il progresso, dicono.
Il sindaco Stefano Lo Russo e l’assessora Chiara Foglietta parlano con entusiasmo di una “città che cambia, che guarda avanti, che investe nei giovani”. E certamente Torino guarda avanti — talmente avanti che rischia di non accorgersi più di chi resta indietro. I rendering mostrano una città perfetta: verde, efficiente, luminosa. Peccato che nei quartieri veri, da Mirafiori a Falchera, le luci si spengano alle dieci di sera e i marciapiedi restino rotti per anni.
L’idea di fondo è chiara: trasformare Torino in una “vetrina internazionale”. Ma come tutte le vetrine, ciò che conta è l’effetto ottico, non il contenuto. Dietro i palazzi in vetro e acciaio, restano le stesse storie di precarietà, disoccupazione e povertà che nessun piano regolatore potrà cancellare. E mentre si sogna di attrarre investitori, i torinesi continuano a fare i conti con bollette impazzite, stipendi da fame e affitti inaccessibili.
Nel frattempo, la Torino manifatturiera, quella che ha fatto la storia, si spegne piano piano. I capannoni si svuotano, le fabbriche si spengono, ma almeno — ci assicurano — saranno “rigenerate” in centri culturali, hub creativi e coworking sostenibili. Tutti rigorosamente arredati in stile minimal e frequentati da startupper in bici elettrica. Una bella cartolina, certo, ma senza chi ci lavorava dentro.
E che dire delle periferie? Quelle che non finiscono mai nei depliant del futuro, ma che continuano a essere lì, ai margini, a fare i conti con le stesse difficoltà di vent’anni fa. Quartieri dove il welfare è ormai un ricordo e i giovani scappano appena possono. Ma tranquilli: arriveranno presto i “progetti di riqualificazione integrata”. Magari un bel murale, qualche panchina di design, e via: problema risolto.
Il paradosso è che Torino, pur di sembrare moderna, rischia di diventare finta. Si organizzano convegni sull’innovazione urbana con titoli altisonanti tipo “Reinventare la città post-industriale”, ma spesso gli unici “cittadini” presenti sono consulenti, architetti e assessori. Chi abita davvero quei quartieri, invece, non viene mai invitato. Forse perché stonerebbe con l’estetica delle slide in PowerPoint.
E poi c’è la retorica “green”. Ogni progetto oggi deve esserlo, anche quando non lo è. Cementificare un’area? Tranquilli, se ci pianti un albero accanto, è “verde”. Costruire torri di lusso? Nessun problema, basta scrivere “a impatto zero”. È la magia del linguaggio: Torino si trasforma in un laboratorio di sostenibilità… a parole. Nella realtà, le polveri sottili restano, il traffico pure, e le ciclabili finiscono ancora nel nulla.
Ma la parola chiave è una sola: smart. È la formula magica che risolve tutto. Smart housing, smart mobility, smart lighting, smart everything. Peccato che per molti cittadini la vita resti tutt’altro che smart: stipendi bassi, servizi carenti e un senso crescente di esclusione. Forse, più che di intelligenza artificiale, servirebbe un po’ di intelligenza politica.
Torino ha sempre saputo reinventarsi, è vero. Ma questa volta sembra più un lifting che una rinascita. La città si veste di futuro, ma sotto resta piena di rughe. E se le nuove torri vogliono rappresentare l’identità contemporanea, rischiano invece di diventare monumenti all’ineguaglianza. Dal trentesimo piano la vista è meravigliosa, ma da terra si continua a vedere la stessa polvere.
La domanda, alla fine, è semplice: chi vivrà in questa nuova Torino? Una città sempre più vetrina, sempre meno casa. Dove l’innovazione sembra un privilegio e la modernità un biglietto a pagamento. Se il futuro deve essere questo, allora qualcuno resterà per forza nel passato — o meglio, nel presente che nessuno vuole più guardare.
Insomma, il nuovo PRG promette molto e forse realizzerà poco. Per ora, Torino resta sospesa tra la nostalgia della sua identità operaia e la smania di sembrare cosmopolita. Tra le torri che salgono e le periferie che affondano. Tra chi costruisce e chi, come sempre, resta a guardare. E mentre i potenti parlano di “visione”, i torinesi, quelli veri, aspettano ancora che qualcuno si degni di guardare dove mettono i piedi.
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