"Non sono uno sciacallo, sono caduto in una trappola". Si è difeso così, nella maxi aula 4 del Tribunale di Torino, Gian Mario Rossignolo, finito sul banco degli imputati per truffa e bancarotta fraudolenta. Per la prima volta dall'apertura del processo per il fallimento De Tomaso, l'imprenditore 87enne si è seduto davanti ai giudici e ha fornito la sua versione dei fatti. L'accusa, sostenuta dal pm Vincenzo Pacileo, è legata all'acquisto, da parte della storica casa automobilistica torinese, di un ramo d'azienda della Pininfarina: operazione che avrebbe portato al dissesto le casse della società. Un'operazione "che mi è stato chiesto di fare", ha ribattuto Rossignolo. "Sono stato pressato, pregato mille volte. E poi sabotato dalla Regione e da qualcun altro. E mi sono ritrovato a metà del guado con uno stabilimento che cadeva a pezzi, senza avere gli aiuti che mi erano stati promessi". L'imprenditore scarica ogni responsabilità. "Non sono stato messo nelle condizioni di lavorare", afferma. E ricorda: "mi aveva addirittura chiamato Sergio Chiamparino (all'epoca sindaco di Torino) e mi ero anche seduto a un tavolo con l'allora presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, e l'assessore Andrea Bairati, che mi avevano assicurato il massimo appoggio. Ma alla fine non c'è stato. E gli accordi sono cambiati nel tempo. Mi erano stati promessi finanziamenti destinati allo sviluppo tecnologico e alla formazione professionale, per la precisione 19 milioni di euro, che sono arrivati solo in minima parte - sottolinea - Poi però ci sono state le elezioni. E il nuovo presidente della Regione, Roberto Cota, mi ha spiegato che i soldi non c'erano. Ormai mi ero impegnato per la mia città. E lì ho sbagliato: avrei dovuto lasciare perdere tutto. Eppure sono andato avanti, perché credevo nel progetto". Rossignolo non risponde però al pm Pacileo, che gli chiede come sono stati spesi i fondi pubblici, 7,5 milioni di euro stanziati per la formazione dei lavoratori dell'azienda. "I corsi sono stati attivati per poche decine di persone e subito sospesi. Che fine hanno fatto questi soldi?", ha chiesto il magistrato. "Ho bisogno di vedere la contabilità. Siete voi ad avere i conti, non io. Adesso non so dirvi", ribatte Rossignolo. Che a un certo punto ammette di aver utilizzato una parte dei finanziamenti per la gestione della società. "Non potevo fare altrimenti. Non c'è nulla di male". Rumoreggiano i dipendenti della De Tomaso, una ventina arrivati a Palazzo di Giustizia per assistere all'udienza. Duecento lavoratori si sono costituiti parte civile, come la Regione Piemonte e FinPiemonte, la finanziaria regionale, e chiedono i danni per il lavoro mai avuto. Una media di 50mila euro ciascuno. A passare per un criminale, però, Rossignolo non ci sta: "In questi anni sono stato massacrato dai giornali. Descritto come uno sciacallo. Ma io sono una persona diversa". E così deposita davanti ai giudici un libro autobiografico che regala al pm. "L'ho scritto per raccontare la mia vita, perché i miei nipoti sappiano la verità". Imputati nel processo, oltre a Gian Mario e Gian Luca Rossignolo, padre e figlio, anche altre sei persone.
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