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13 Marzo 2020 - 11:00
Quando comincia a piovere qui, nella Padana, non è mai per caso.
Anche il tempo, come gli uomini, è tenace e di rado bizzarro o capriccioso e così, quando l’acqua comincia a scendere, scende con convinzione, senza stancarsi, con impegno, come un lavoro che deve essere fatto e fatto bene.
Ci sono i temporali estivi è vero, ma non fanno testo, sono ragazzacci dispettosi che arrivano e se ne vanno in fretta, dopo aver giocato un poco.
La vera pioggia è quella lenta e sempre uguale, quella che colora di grigio il cielo e l’animo, quella delle gocce ritmate nelle pozzanghere scure, quella che trasforma le strade in fango ed i rigagnoli quieti delle risaie in torrentelli impetuosi.
Era in giornate come queste, quando i piccoli villaggi diventavano isole, perdute nel verde e nell’acqua, appena illuminate, la sera, da lampioni radi e fiochi, che il Carlìn e il Luigi giocavano le loro partite, seduti al tavolo dell’unica osteria, davanti ad un buon mezzo litro di rosso, mentre l’acqua colava sui vetri a piombo e sul selciato di pietre di fiume, lavato e lucido come appena incerato.
Luigi, il Gobbo e Carlìn, il Tencio, erano due formidabili giocatori di scopa.
Quando facevano coppia, nessuno riusciva a batterli, non c’erano santi o bestemmie che tenessero; vincevano sempre.
I due avevano elaborato una serie infinita di segni e smorfie, con le quali comunicavano carte e strategie.
Erano diventati talmente abili in questo gioco di mimica che lo usavano anche per parlarsi.
Era un vero e proprio alfabeto quello che avevano inventato e vederli era uno spasso.
Quando c’erano loro, le sedie davanti al grosso televisore in bianco e nero, unico lusso del locale, rimanevano vuote.
Il Gobbo e il Tencio, con il loro repertorio di bocche contorte, nasi arricciati e occhi strizzati, tenevano ben testa ai film con Gino Cervi e Alain Delon. Soltanto la Bardot faceva perdere loro gran parte del pubblico.
Gli amici cominciarono, quasi per scherzo, ad iscriverli ad alcune gare paesane, rari svaghi, insieme al ballo a palchetto, delle feste dei paesi.
I due vinsero e poi vinsero ancora ed in breve, nella piccola osteria a pochi passi dal fiume, in bella mostra su di una mensola di legno scuro, dietro il bancone, accanto al grigio-verde, all’amaro, alla grappa ed ai bottiglioni di rosso, trovarono posto i loro trofei, le loro coppe, le medaglie.
Di queste continue vittorie, i due non si vantavano poi tanto, anzi, erano diventati ancora più taciturni.
Parlavano ormai soltanto a gesti e a smorfie, bastava capirli e dicevano tutto, usando quel loro strano alfabeto.
Questo genere di vita andava a pennello per il Gobbo che era solo, scapolone di mezza età, ma lo stesso non poteva dirsi per il Tencio, che aveva moglie.
La Rosina, che già lo rimproverava spesso per il suo attardarsi all’osteria, adesso non passava giorno che non gli facesse una scenata.
«Mi sembri un matto, mi sembri. Tu e quel tuo socio. Due matti, sempre con le carte in mano e quelle facce, poi.
Mai una sera che rimani a casa, mai. Sempre a fare quei versi; mi sembri lo zio Giacomo, ma almeno a lui gli è presa una paralisi, ha un motivo, ma tu… Se continui così, un giorno o l’altro viene anche a te, stai sicuro».
Il Tencio non replicava. A volte ascoltava a volte no e quando la moglie cominciava con la storia della paralisi, aggiungendo nuovi particolari impressionanti, faceva gli scongiuri, null’altro.
Una sera, che la Rosina aveva prolungato più del solito la descrizione della malattia dello zio, si era un poco preoccupato e, inforcata la sua bicicletta, era andato da Giacomo.
Il vecchietto stava come al solito, a parte la bocca un poco storta e una mano pendula. Avevano bevuto insieme due bicchieri e poi aveva ripreso la strada dell’osteria, annegata nel tramonto di rosso e verde d’una giornata d’estate.
Pensava che le donne ed in specie le mogli, devono brontolare un poco, è nella loro natura. In fondo la Rosina è una brava donna.
Ed eccolo a provare una nuova serie di smorfie con il Gobbo.
La fama dei due giocatori valicò il piccolo villaggio e la leggenda dei due arrivò in città.
Era un giorno di metà maggio ed aveva appena smesso di piovere, quando una lunga auto si fermò davanti all’osteria.
Un signore elegante, con le scarpe infangate e la giacca zuppa d’acqua, scese ed entrò.
«Cerca qualcuno, signore?» chiese l’oste, squadrando il forestiero.
«Maledizione a questa pioggia e alle vostre strade», esclamò lui, scrollandosi la giacca come un cane bagnato.
«Cerco due che sappiano giocare bene a carte. Sapete dirmi qualcosa oppure ho sbagliato posto?»
«Se cercate due campioni, allora siete nel posto giusto. Eccoli, sono là, vedete? Il Gobbo e il Tencio, Non ci sono giocatori migliori di loro, nossignore. Adesso li chiamo».
Il Gobbo e il Tencio furono iscritti ad un grande torneo, che prevedeva un cospicuo premio in denaro.
«Può essere l’inizio della vostra fortuna», aveva detto il forestiero, allontanandosi con la sua auto carica di fango.
I due, a furia di smorfie, vinsero le eliminatorie, i quarti e la semifinale. Arrivarono in finale senza nemmeno accorgersene.
Per il gran giorno, il villaggio era in festa.
Tutti gli abitanti abili, esclusi i vecchi infermi ed i bambini piccoli, ma zio Giacomo incluso, si erano mobilitati per andare in città, a vedere il Gobbo e il Tencio che vincevano il torneo.
Non v’era dubbio, non potevano perdere.
Sarebbe stato un grande avvenimento, in quell’isola della pianura, dove il tempo scorreva sempre allo stesso modo e l’ultimo importante avvenimento era stato l’incidente col trattore del Pinìn, che non si era fatto nulla, ma aveva travolto tre galline del Gripo, con conseguente lite fra i due ed intervento del maresciallo Tonio.
Niente a che vedere col torneo in città.
Il Gobbo si era tirato a lucido.
Giacca scura, camicia bianca, pantaloni scuri e scarpe nere. Lucide.
Nessuno lo aveva mai visto così, vestito come uno di città. Qualcuno stentò a riconoscerlo, altri ironizzarono che quello era il vestito che conservava per il suo funerale ed infatti avevano quasi colto nel segno. Era il vestito che suo zio Minòt aveva messo da parte per il proprio funerale, ma il Gobbo era sicuro che non sarebbe morto proprio quel giorno. In ogni modo, vestito così faceva una gran bella figura e tanto bastava.
L’ora della partenza era giunta, ma il Tencio ancora non si vedeva.
«Starà mettendosi la brillantina e la cravatta» disse l’oste, con una risatina.
«Magari gli è presa quella paralisi che la moglie ogni tanto gli augura». Altre risate.
«Si sta facendo tardi. Qualcuno vada a vedere, ditegli di sbrigarsi».
Il Pierino, il figlio del Roberto, quello della cascina dell’Isolotto, comincia a correre sullo sterrato che porta alla casa del Tencio.
La casa è lì dietro l’angolo, con i suoi mattoni rossi e il glicine fiorito che pende dal muretto.
Arriva e chiama; nessuno risponde.
La casa è vuota, la porta sprangata.
Pierino chiama ancora un po’, gli risponde un concerto di cani.
Torna indietro e non sa cosa dire alla gente che lo interroga e che, d’improvviso, si è fatta seria.
«Non può già essere andato in città, dovevamo partire tutti insieme».
«Magari ha dovuto correre alla Cascina Rossa, dove abita la zia di sua moglie, magari si è ammalata».
Vanno a vedere in due, ma la zia sta benissimo e non sa nulla.
La gente comincia a ritornare a casa, mentre le ombre si allungano sulle strade bianche di ghiaia e la luce giallognola dei lampioni si confonde col tramonto e comincia a brillare nelle pozzanghere dell’ultima pioggia.
Il Tencio è sulla riva del fiume, seduto su di un gran masso, a guardare la corrente e i gorghi, che si formano e scompaiono e ancora si formano e di nuovo spariscono, all’infinito.
La sua Rosina se n’è andata.
Si è portata via le sue poche cose, tutto nelle due valigie che avevano usato per il viaggio di nozze e che erano rimaste sul fondo dell’armadio, dimenticate.
Non sa dove andare a cercarla, non aveva mai pensato che sua moglie potesse lasciarlo; quelle cose succedevano agli altri, in città.
Non a lui, non in quella pianura.
Eppure il biglietto parla chiaro. Poche parole:
Me ne vado. Non cercarmi. Tutto lì.
Non sa cosa fare, il Tencio.
L’idea di tornare in quella casa vuota lo spaventa; sa però che lo farà.
Qui la gente è tenace, decisa, come la pioggia.
Per la gente del villaggio, il Gobbo e il Tencio quella partita l’hanno vinta lo stesso, anche se, da quel giorno, la grande coppia non si è più riunita.
Il Tencio è rimasto ma non ha più fatto smorfie. Forse ne avesse fatte di meno, la sua Rosina sarebbe ancora con lui, a dividere le stagioni della vita.
Si è poi saputo che era fuggita col Vittorio, di otto anni più giovane di lei, partito per la Germania, in cerca di fortuna.
L’osteria è sempre lì, ad un palmo dal fiume, anche se adesso la gente guarda un po’ di più il televisore e meno quelli che giocano a carte.
Ogni tanto qualcuno sbaglia a calare e dal bar si sente esclamare:
«Ci fossero il Gobbo e il Tencio, la pagavate cara».
Ma sono sempre meno quelli che sanno chi erano il Gobbo e il Tencio.
Qualche volta, le cose cambiano anche qui.
Solo la pioggia è sempre la stessa.
racconto tratto da:
Vite silenziose, Storie di gente intorno al Po
di Silvano Nuvolone
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