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TORINO. Paura e insicurezza nel salotto di Torino. Dal terrorismo ai neo dittatori, il paradigma della modernità...

TORINO. Paura e insicurezza nel salotto di Torino. Dal terrorismo ai neo dittatori, il paradigma della modernità...

piazza San Carlo

La guerra a bassa intensità che da anni si combatte nel cuore dell’Europa» ci ha cambiati in profondità – scrive Marco Revelli sul manifesto di giovedì 8 giugno, riflettendo sull’in¬crescioso e certo «inusitato» episodio di Torino, avvenuto in piazza San Carlo la sera del 3 giugno.

In relazione a questo cambiamento, inoltre, sia lui che Sarantis Thanopulos (cfr. il manifesto del 6/6), sostengono che quella vicenda torinese abbia in qualche modo evidenziato gli effetti deleteri provocati da un trentennio di neo-liberismo individualistico: «crisi di solidarietà», «smantellamento (..) dei legami solidali». In realtà questi momenti di panico collettivo (trascorsi nella de-industrializzata capitale piemontese, presa alla sprovvista da un evento che si poteva tranquillamente prevedere e prevenire), ebbene questi drammatici istanti di paura collettiva mettono bene in luce l’intersecarsi di terrorismo e individualismo neo-liberista. Infatti, come il terrorismo si alimenta di individualismo, ossia di qualcosa che è programmaticamente previsto dal sistema capitalistico neo-liberista (Revelli ricorda a tal proposito il principio fondativo del neo-liberismo thatcheriano), così questo sistema, da sempre, non può prescindere dalla psicosi della paura generata proprio dal terrorismo.

Quell’episodio insomma, apparentemente poco rilevante – al punto, osserva il sociologo cuneese, da non suscitare nessuna riflessione adeguata né nel mondo culturale né tanto meno in quello della politica – mostra invece una inconfessabile e comunque poco visibile reciprocità tra due elementi che in linea di principio dovrebbero apparire antitetici se non addirittura inconciliabili. Il terrorismo – l’aveva già detto Wolfgang Sofsky nel suo saggio del 2005, Das Prinzip Sicherheit (trad. it. Rischio e sicurezza, Einaudi) – crea quell’insicurezza che è indispensabile al consolidarsi della politica neo-liberista, la quale, specie dopo il crollo delle Torri gemelle, ha fatto della sicurezza il suo principio primo.

Specialmente nei periodi delle crisi cicliche del capitalismo, il rischio prodotto dal terrorismo finisce con il divenire dialetticamente funzionale alla sopravvivenza e alla riconfigurazione del capitalismo. Nello stesso senso vanno intese le parole che a un certo punto, durante una predica, il monaco certosino Salus (Toni Servillo) pronuncia ne Le confessioni di Roberto Andò (2016): «Fame e miseria sono solo ingredienti dello sviluppo». Sicché da un lato il neo-liberismo istituisce quell’individualismo necessario al terrorismo per diffondere il terrore e per creare situazioni critiche simili a quelle che abbiamo visto a Torino; dall’altro il terrorismo produce quella paura che risulta indispensabile al neo-liberismo allo scopo di mettere in sicurezza una massa di individui sempre più spaventati, insicuri, indifesi e impotenti dinanzi al rischio reale e continuo di un attentato di matrice terrorista.

Non sarebbe poi affatto scandaloso – e la storia (non soltanto quella recente) sta lì a ricordarcelo – pensare che questa vantaggiosa reciprocità venga talvolta persino prevista e quindi concordata tra le parti in causa. D’altronde, se, da una parte, il ramificarsi, il capillare diffondersi della paura e del conseguente cronicizzarsi di questo clima del “si salvi chi può”, del bellum omnium contra omnes, della “lotta di tutti contro tutti” delinea già per molti versi (e in quasi tutti gli ambiti di quel che resta della vita “associata”) lo scenario regressivo dell’hobbesiano homo homini lupus; e se, dall’altra parte, il desiderio di ogni individuo è stato ormai ridotto solo a quello istintuale del veder garantita la propria individuale incolumità, la propria sicurezza, allora viene più facile capire le ragioni paradossali del continuo trasformarsi dei sistemi politici democratici in semi-dittature. Oggi, infatti, le democrazie e le istituzioni democratiche per sopravvivere nello scontro con il terrorismo debbono vestire gli abiti di pseudo-monarchie. Da qui l’abnorme personalizzazione della politica e dei partiti, i quali, specie nell’ultima fase, dice Alberto Asor Rosa, «sono diventati strumenti di ristretti gruppi dirigenti», se non addirittura «di un solo uomo» (manifesto 8/6). Lo stesso Asor Rosa, tra l’altro, a proposito della legge elettorale (non più) condivisa dai «quattro dell’Orsa maggiore», ossia dal quadripartito Pd, Fi, M5S e Lega, accenna a «una sorta di “colpo di forza” in veste compiutamente democratica».

A tal riguardo una cosa è certa: la confusione sui diversi sistemi elettorali da modellare sul corpo spigoloso dello Stivale costringe l’Italiano medio a rinunciare a capirci qualcosa: tale che si renderebbe necessario istituire un Ministero della Semplificazione e della Comunicazione. Oggi, insomma – ha recentemente dichiarato Theresa May –, pur di fare i conti con la violenza Daesh i governi debbono essere perfino disposti a cancellare i diritti umani («I’m clear: if human rights laws get in the way of tackling extremism and terrorism, we will change those laws to keep British people safe», «Se le leggi sul rispetto dei diritti umani ci impediranno di affrontare estremismo e terrorismo le cambieremo, pur di tenere al sicuro il popolo britannico»). In tal modo viene tacitamente rinnovato il “patto” socio-politico hobbesiano, viene cioè necessariamente riesumato quello che ne La politica perduta (2003) Revelli ha definito il paradigma politico della modernità. Ma anche sulla scorta di un simile “patto”, l’abbandono dei cittadini a se stessi – dal momento che è ormai divenuto sistemico, strutturale e quasi ontologico – proprio quella sera a Torino, in occasione della finale della Champions League, si è manifestato in tutta evidenza: lo si è visto materializzarsi allorché tutta la sicurezza garantita e ostentata dal sistema municipale è stata in grado solo di creare il panico e di alimentare l’insicurezza.

Ciò, ovviamente, accade nelle città e fra i cittadini. Giacché l’abbandono diviene assoluto e senza alcuna possibilità di sostegno e di reintegro effettivo per quegli esseri umani che vivono da migranti e da apolidi in centri di accoglienza variamente denominati (cpt, centri di permanenza temporanea, cie, centri di identificazione e di espulsione, cpr, centri di permanenza per il rimpatrio), collocati in zone di frontiera. «Vite di scarto» chiamava Bauman  quelle degli esseri costretti a vivere abbandonati in luoghi senza spazio e fuori dal tempo, assimilabili ad esseri senza destino, e quindi in tutto e per tutto paragonabili a cose. Anzi. Pur nella loro sistenza, le cose conservano sempre una loro intrinseca utilizzabilità, persino una loro malinconica bellezza, mentre ora gli uomini, per quanto ex-sistenti, consapevoli cioè del loro ex-sistere, del loro essere al mondo, specie a fronte della civiltà cibernetica, vivono coscientemente la loro tragica inutilità e il loro abbrutimento. Ed è bastato un nonnulla quella sera, in quella piazza torinese irresponsabilmente sovraffollata, nel “salotto di Torino”, trasformare un insieme festoso di cittadini in una massa di bruti in preda al panico.

Franco Di Giorgi, Ivrea

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