Guido Giacosa, nato nel 1825, per tutto il 1860 è stato avvocato patrocinatore a Ivrea e a fine anno è nominato sostituto avvocato dei poveri a Modena. Nel maggio 1862 diventa sostituto procuratore generale del re presso la corte d’appello di Palermo. La prestigiosa nomina dipende anche dall’inquieto momento politico post unitario, quando il governo invia in Sicilia magistrati settentrionali, fidati ed energici, come Giacosa. Giacosa è poco compiaciuto della realtà della città di Palermo. Parla di “superficie verniciata, sostanza pessima”. Palermo è inquieta: dal 28 giugno 1862 ospita Giuseppe Garibaldi, con grande entusiasmo popolare. Sono accorsi ben 4.000 volontari siciliani per la spedizione diretta a Roma che si concluderà ad Aspromonte, dove, il 29 agosto, Garibaldi sarà ferito dai soldati dell’esercito italiano. Alcuni mesi dopo, Giacosa deve indagare su un misterioso ed inquietante episodio noto come la “Congiura dei Pugnalatori”. Nella notte del 1° ottobre 1862, nel centro di Palermo tredici passanti vengono feriti a pugnalate da misteriosi aggressori coordinati da un piano scellerato. Uno dei pugnalatori viene inseguito e catturato. È Angelo D’Angelo, palermitano di 38 anni, con precedenti penali e forse ex spia della polizia borbonica. Questo cattivo soggetto confessa e accusa undici persone di essere suoi complici. Racconta di essere stato assoldato, per tre tarì (1 tarì = 0,425 lire) al giorno, da un suo conoscente, un
guardapiazza (proteggeva i commercianti di una certa zona). Questo
guardapiazza, con altri due reclutatori, aveva messo insieme un drappello di otto popolani, disposti per denaro a pugnalare dei passanti ignari. In tutto, con D’Angelo, erano dodici. Interrogati sul mandante delle aggressioni, i tre reclutatori avevano ammesso che era il principe di Sant’Elia. Romualdo Trigona, principe di Sant’Elia, ricchissimo e assai rispettato a Palermo, era senatore del regno e
leader del partito moderato. A detta dei reclutatori, questo complotto era un complesso affare politico che i popolani non potevano capire.
Così, senza porsi altre domande, al 1° ottobre, suddivisi in tre squadriglie, avevano eseguito i tredici ferimenti. D’Angelo diceva di averne effettuati due, poi era stato catturato. Gli individui accusati da Angelo D’Angelo vengono tutti arrestati. Negano e non si trovano prove significative che confermino le accuse. Gli inquirenti, anche se attribuiscono grande fiducia alle rivelazioni di D’Angelo, non credono che il mandante sia stato il principe di Sant’Elia.
Le indagini del questore Giovanni Bolis su mandanti e scopi di questo episodio, oggi definibile di “strategia della tensione”, danno esito deludente. Bolis, nato nel 1831 a Caprino Bergamasco, è uno dei funzionari settentrionali posti dal governo alle cariche elevate nella difficile situazione siciliana.
Guido Giacosa entra in scena a questo punto come pubblico ministero. Sostiene l’accusa di “attentato diretto a portare la strage in un comune dello stato” con l’aggravante della premeditazione, assassinio (uno dei pugnalati è morto) e mancato assassinio, nel processo iniziato l’8 gennaio 1863 alla corte di assise di Palermo. Al 15 gennaio è emessa la sentenza. Il processo, indiziario, si è basato unicamente sulla confessione di D’Angelo, “propalatore”, oggi diremmo “pentito”, con la differenza che la legge del regno d’Italia non prevede nessuna riduzione di pena per gli imputati che accusano i loro complici. Giacosa, nelle sue richieste di condanna, ha considerato credibile D’Angelo quando accusa i complici ma non ha ritenuto attendibile il coinvolgimento del principe di Sant’Elia.
La sentenza accoglie le richieste di pena di Giacosa: condanna a morte per i tre reclutatori del drappello di pugnalatori, lavori forzati a vita per gli altri otto. D’Angelo è condannato a venti anni di lavori forzati per la sua collaborazione con la giustizia. Prima della sentenza, la setta dei pugnalatori torna a colpire. Il 13 gennaio è pugnalato alla schiena un venditore di pane, Domenico Di Marzo, mentre passeggia con la moglie. Già in serata è arrestato il pollivendolo Giovanni Russo, accusato di essere il pugnalatore di Domenico Di Marzo, riconosciuto dalla moglie del ferito. Due giorni dopo, i coniugi Di Marzo ritrattano le loro accuse e incolpano un altro personaggio.
In questo periodo vengono pugnalate per strada anche altre persone, ma nessuno di questi ferimenti solleva lo scalpore del caso Di Marzo, che il questore Bolis ricollega alla setta dei pugnalatori. Mentre in Palermo si diffonde la paura, Giacosa riprende le indagini con la collaborazione di un altro magistrato, il consigliere di corte d’appello Giovan Battista Mari, piemontese, con cui agirà sempre in accordo. Giacosa e Mari accertano che i Di Marzo hanno ritrattato per un depistaggio dell’ispettore di polizia Daddi, estraneo alle indagini, e decidono di arrestare l’equivoco funzionario. Daddi promette clamorose rivelazioni che però non emergono. Viene così a mancare ogni appiglio per le indagini tradizionali. Giacosa e Mari decidono di impiegare un agente provocatore nel carcere, per ottenere qualche utile informazione dai condannati a morte, più addentro nella cospirazione. Come provocatore si presta il giovane detenuto Orazio Matracia, sedicente oriundo spagnolo, già spia del direttore del carcere di Palermo. Matracia presto sostiene di avere ottenuto da uno dei condannati importanti rivelazioni che coinvolgono il principe di Sant’Elia. Matracia, rilasciato dal carcere, assicura di essere stato introdotto - con una fiducia e una rapidità che oggi suonano assai sospette! - fra i cospiratori di una congiura filoborbonica, che dovrebbe scoppiare il 19 marzo, festa di San Giuseppe e onomastico di Garibaldi. Matracia sostiene che nella sera dell’8 marzo ha incontrato all’arcivescovado di Palermo il principe di Sant’Elia e altri undici cospiratori, tra cui molti sacerdoti. Subito dopo, Matracia dice di essere stato individuato. Giacosa deve frettolosamente formulare una accusa di “attentato contro la sicurezza interna dello Stato” per tutti i nominati nelle relazioni di Matracia: 34 persone, tra capi e gregari. Si procede, con un certo affanno, ad arresti ed a varie perquisizioni, senza risultati tangibili. Con grande spiegamento di carabinieri, è perquisita anche la casa del principe di Sant’Elia, nella notte tra il 12 e il 13 marzo. Questa perquisizione, inconcludente, è ai limiti della legalità, poiché Sant’Elia come senatore del regno gode di immunità. Questa clamorosa iniziativa di Giacosa e Mari solleverà fiere discussioni al senato di Torino.
Il questore Bolis inserisce nella congiura anche vari personaggi di area garibaldina e autonomista, sui quali Matracia non ha fatto rivelazioni. Bolis si basa soltanto su vaghe voci. Così la macchinazione assume la curiosa definizione di “cospirazione borbonico mista”. Giacosa fa eseguire anche questi arresti e, il 15 marzo, manda al ministro guardasigilli Pisanelli, una relazione che non arriverà mai a Torino. Giacosa ne deve inviare una seconda. La verifica delle affermazioni di Matracia evidenzia che il racconto dell’infiltrato fa acqua da tutte le parti. I vaghi sospetti su garibaldini e autonomisti presto cadono. In questo momento critico dell’indagine si verifica un episodio che pare delegittimare l’operato di Giacosa e Mari. Il 5 aprile 1863 è il giorno di Pasqua. Il re Vittorio Emanuele II incarica il principe di Sant’Elia di rappresentarlo nelle funzioni religiose della Settimana Santa.
Nel frattempo, il processo ai pugnalatori ha seguito il suo corso. L’esecuzione dei tre condannati è eseguita mediante ghigliottina alle sei del mattino del 9 aprile, pochi giorni dopo la prestigiosa apparizione pubblica di Sant’Elia. L’imperizia dell’esecutore rende lo spettacolo macabro e crudele.
In aprile iniziano a Palermo duri attacchi della stampa all’inchiesta di Giacosa e Mari. Altre critiche vengono dal deputato siciliano Francesco Crispi al parlamento di Torino. Al senato si continua a discutere dell’operato dei magistrati palermitani. L’indagine ormai rappresenta per il governo un imbarazzante caso politico.
Il 29 maggio Giacosa prepara una requisitoria per chiedere l’assoluzione di Sant’Elia e di molti altri imputati, richiesta che è accolta il 30 maggio. Restano incriminati soltanto il pollivendolo Giovanni Russo, accusato del ferimento e successiva morte di Domenico Di Marzo e l’ispettore Daddi, incolpato di avere depistato le indagini accusando un innocente. Processati alcuni mesi più tardi, saranno entrambi assolti. Giacosa, ormai stanco, sfiduciato e isolato, fin da aprile 1863, ha chiesto un trasferimento di sede e, nel frattempo, un congedo per ritornare in Piemonte. Fermamente convinto della colpevolezza del principe di Sant’Elia, quando capisce che il governo non ha intenzione di incriminarlo, considera questo atteggiamento come un cedimento, legato a motivazioni di bassa opportunità politica, che rende la giustizia iniqua perché colpisce gli esecutori materiali e risparmia i mandanti altolocati. Per coerenza, decide di dimettersi dalla magistratura per esercitare la libera professione di avvocato. Lascerà Palermo il 2 giugno 1863.
Guido Giacosa trasmette la sua convinzione della colpevolezza di Sant’Elia ai familiari e ai discendenti tanto che in famiglia viene elaborata una sorta di leggenda intorno a questo caso. Nina Ruffini, pronipote di Guido, basandosi sulle copie dei documenti che Giacosa aveva raccolto nell’inchiesta, tenuti presso di sé e poi affidate ai discendenti, ha scritto
Un magistrato piemontese in Sicilia: 1862-1863, apparso in una miscellanea di studi a cura del Centro Studi Piemontesi (1975). L’anno seguente, Leonardo Sciascia, sempre sulla base della documentazione privata dei Giacosa, ha elaborato
I pugnalatori pubblicato prima su
La Stampa di Torino poi in volume da Einaudi. Con questo suo libro, Sciascia ha conferito un forte risalto alla vicenda. Nella sua ricostruzione, Sciascia segue l’impostazione di Nina Ruffini e considera Sant’Elia colpevole. Sospetta un complotto politico massonico ordito dalla vecchia classe dirigente borbonica; dietro le quinte agiscono mafiosi e massoni. Successivamente il caso dei pugnalatori è stato approfondito dal professor Paolo Pezzino, docente di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa. Dopo aver consultato una vasta documentazione non nota a Sciascia, Pezzino ha dedicato a questa congiura due libri, dove contraddice le conclusioni di Sciascia e dicendosi convinto dell’innocenza del Sant’Elia. I tredici ferimenti a coltellate nella notte del 1° ottobre 1862 e la cospirazione denunciata da Matracia sarebbero stati orditi dalla questura palermitana per sbarazzarsi delle opposizioni politiche: i garibaldini e i borbonici. Dietro le quinte, secondo Pezzino, agiscono i “servizi” dello stato post unitario. D’Angelo sarebbe stato l’unico responsabile di tutti i 13 ferimenti e avrebbe poi evocato la congiura, accusando persone di sua conoscenza, per mitigare ai rigori della legge. Il punto oscuro di questa ipotesi è rappresentato dal coinvolgimento del liberale moderato e filogovernativo principe di Sant’Elia. Per questo sarebbe da definire il ruolo della massoneria, cui il principe apparteneva. Guido Giacosa non esce troppo bene da questa ricostruzione. Considerando credibili le accuse di D’Angelo, avrebbe fatto condannare a morte tre innocenti, e avrebbe prestato troppa fede alle rivelazioni di Matracia. Pezzino impiega pagine e pagine per tentare di spiegare il comportamento di Giacosa. In estrema sintesi, ipotizza che in Giacosa, convinto che l’ambiente siciliano fosse barbaro e ostile nei confronti della giustizia, sarebbe nata una sorta di simpatia e di fiducia verso D’Angelo e Matracia che in qualche modo collaboravano con la giustizia. Giacosa pensava di dover educare alla libertà i siciliani che non parevano apprezzare l’assoluta superiorità delle istituzioni liberali appena introdotte in Sicilia. Spinto da spirito missionario e da passione politica, Giacosa si sarebbe impegnato in una battaglia personale contro il clero, contro l’aristocrazia, corrotta e infida, e contro gli indocili popolani palermitani, fino a ipotizzare uno scenario fittizio ma per lui plausibile. Sarà. Ma certo i canavesani preferiranno ricordare Guido Giacosa come valente e imparziale investigatore che risponde con rettitudine al doppiopesismo dei politicanti.
Ringrazio per la collaborazione il Centro Studi Piemontesi di Torino.
Milo Julini