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DECOMMISSIONING NUCLEARE
03 Aprile 2023 - 18:55
Il cantiere dell’impianto Cemex e del deposito D3 nel sito Eurex di Saluggia
ROMA. (r.n.) - Il 6 marzo scorso i lavoratori di Sogin - l’azienda di Stato che si occupa dello smantellamento degli impianti nucleari italiani, compresi quelli di Saluggia e Trino - insieme alle Rsu delle centrali e degli impianti, le rappresentanze sindacali territoriali e la segretaria nazionale della Filctem-Cgil hanno manifestato sotto il ministero dell’Economia e della Finanza, unico azionista del Gruppo, per portare all’attenzione del Governo e degli organi di controllo la grave situazione che sta vivendo l’azienda e sottolineare la preoccupazione sulla continuità operativa dell’azienda e sul mantenimento in sicurezza delle centrali e impianti nucleari.
«Il Governo faccia chiarezza sul futuro della Sogin» ha esordito Alessandro Borioni, coordinatore nazionale Filctem-Cgil, parlando alle lavoratrici e ai lavoratori in presidio davanti al Ministero.
«L’annullamento dei principali appalti finalizzati allo smantellamento del materiale radioattivo e alla realizzazione del deposito nazionale – ha proseguito Borioni – sta creando molti problemi. L’azienda è ferma, non ci sono attività rilevanti in nessun sito, persiste una grave carenza di personale, soprattutto nei territori, tanto da mettere in criticità la stessa gestione ordinaria e la messa in sicurezza degli impianti. Il Governo ha tolto dalla componente a2 della bolletta elettrica il finanziamento del decommissioning, scorporando la Sogin dal mondo elettrico e produttivo, lasciando l’azienda nel caos della fiscalità generale, mettendo a rischio la tenuta industriale e soprattutto la sostenibilità di un’azienda che deve smantellare e mettere in sicurezza il materiale nucleare presente nel nostro Paese».
«Il giudizio sull’operato dell’organo commissariale - ha conluso il sindacalista - che non ha determinato quella discontinuità necessaria dalla gestione precedente, non ha saputo rilanciare l’azienda e tantomeno presentare un piano industriale adeguato è completamente negativo. Crediamo si sia giunti ad una situazione insanabile, ad una reale preoccupazione per il futuro occupazionale e per la dignità di centinaia di lavoratrici e lavoratori di Sogin e del suo indotto. Si sta mettendo a rischio la tenuta industriale dell’azienda e di ciò che rappresenta il nucleare in Italia, compreso il mantenimento in sicurezza degli impianti».
A livello locale, inoltre, le rappresentanze dei lavoratori Sogin hanno incontrato, nelle scorse settimane, il Prefetto di Vercelli e alcuni amministratori comunali di Saluggia e di Trino.
Nei primi tre mesi dell’anno sono già state presentate alla Camera dei Deputati tre interrogazioni parlamentari sulla situazione di Sogin.
Il 10 gennaio Daniela Ruffino, del gruppo parlamentare Azione-Italia Viva, ha interrogato il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica: “Premesso che:
Il 15 marzo il deputato Federico Fornaro, del gruppo Partito Democratico - Italia democratica e progressista presentato un’interrogazione al Ministro dell’economia e delle finanze, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica. “Premesso che:
Infine il 15 marzo la deputata Chiara Gribaudo, sempre del Pd, ha interrogato il ministro delle imprese e del made in Italy. “Premesso che:
A più di trent’anni dalla chiusura delle centrali cosa ci fa ancora il nucleare nel Vercellese?
Bisogna solo sbaraccare gli impianti e portar via le scorie prima possibile
La stagione nucleare italiana è durata poco più di vent’anni: dalla metà dei ‘60 (la prima centrale, quella di Latina, era entrata in funzione nel 1963) alla metà degli ‘80 (quella di Sessa Aurunca venne definitivamente spenta nel 1982, le altre subito dopo i referendum del 1987).
Centrali che hanno prodotto una risibile quantità di energia elettrica, e che - insieme agli impianti per la fabbricazione del combustibile e a quelli per il ritrattamento - a più di trent’anni dal loro spegnimento costituiscono ancora un enorme problema per il nostro Paese.
Problema di sicurezza (dove mettere le scorie?), problema ambientale (emissioni liquide e gassose anche dopo la chiusura, numerosi sversamenti accidentali di materiale radioattivo nel terreno e nelle falde) e problema di costi (la spesa per il decommissioning finora sostenuta nel XXI secolo ha ormai superato ampiamente quella sostenuta nel XX secolo per la costruzione e la gestione degli impianti). La tara principale sta nell’incapacità dei Governi - tutti, dagli anni ‘60 ad oggi - di spiegare al Paese che se si vuol produrre energia con la fissione nucleare occorre avere un posto in cui stoccare le scorie per centinaia (e in certi casi per migliaia) di anni. In Italia, invece, siamo (quasi) tutti nuclearisti ma non c’è nessuno che voglia le scorie vicino a casa.
E così Sogin, la società di Stato che dall’inizio del secolo si occupa della gestione dell’eredità nucleare italiana, in assenza di indicazioni su dove costruire il Deposito Nazionale definitivo continua a spendere miliardi di euro (inizialmente dovevano essere meno di 3, l’attuale previsione è di 7,5-8, con tutta probabilità si supereranno i 10) per maneggiare questo materiale e costruire nuovi depositi “temporanei” - che saranno poi da smantellare anch’essi - nei siti attuali, accanto agli impianti da dismettere. Siti - come quelli, nel Vercellese, di Saluggia e di Trino, in riva ai fiumi - che vengono unanimemente riconosciuti come inidonei ad ospitare impianti e depositi di materiale radioattivo: ora lo dicono tutti, per trent’anni l’hanno detto solo i vituperati ambientalisti. In un paese normale una Società incaricata di smantellare gli impianti nucleari dovrebbe, dopo vent’anni dalla sua costituzione e dopo avere speso miliardi di euro, aver terminato il lavoro e cessato di esistere.
Oppure esistere solo per gestire un unico Deposito Nazionale in cui tutto il materiale radioattivo avrebbe dovuto essere conferito. Sogin, invece, continua ad esistere, e a gestire i fantasmi dei vecchi impianti: accumulando ritardi, assegnando e revocando appalti e spendendo una caterva di soldi pubblici. Soldi che fino a ieri venivano ricavati da una componente della bolletta elettrica, e che da quest’anno sono a carico della fiscalità generale: a carico di tutti noi, comunque, sia prima che ora; a carico anche di coloro che, nati dopo il 1987, non hanno mai usufruito di energia elettrica prodotta da centrali nucleari italiane, ma che ne pagano - e ne pagheranno ancora per decenni - lo smantellamento. Ai sindacati che se ne accorgono soltanto adesso, e che protestano perché la situazione interna all’azienda - commissariata e “ferma” - è tale da non consentire più di nascondere i problemi, diciamo: alla buon’ora! Finalmente vi siete accorti che quello del decommissioning nucleare è un carrozzone che non va da nessuna parte, che favorisce soltanto coloro che vogliono continuare a fare business con il nucleare ma che intanto continua a bruciare enormi quantità di denaro pubblico. Denaro che potrebbe essere più intelligentemente investito, ad esempio nello sviluppo delle fonti energetiche pulite e rinnovabili: un settore in cui il nostro Paese ha fortissime potenzialità ma sconta spaventosi ritardi. Il passo che i sindacati ancora non riescono a fare, però, è quello di una decisa presa di posizione sul futuro dell’azienda. Preoccuparsi, nel 2023, della «continuità operativa» di Sogin, della «gestione ordinaria degli impianti sul territorio», del «futuro occupazionale di centinaia di lavoratori e lavoratrici dell’azienda e del suo indotto» e di «ciò che rappresenta il nucleare in Italia» è una battaglia miope e di retroguardia.
A più di trent’anni dallo spegnimento delle centrali non si può continuare a menarla sulla «messa in sicurezza degli impianti», come se fossimo ancora nel 1990: gli impianti non devono essere «messi in sicurezza» (che di fatto significa costruzione in loco di nuove strutture e depositi, come Sogin ha fatto finora e tuttora sta facendo), ma devono essere smantellati prima possibile (sui ritardi di Sogin, che non sono iniziati ieri, il sindacato finora ha colpevolmente taciuto), tutto il materiale radioattivo deve essere portato al Deposito Nazionale, i siti attuali devono diventare green field e quel che resta di Sogin - che ha una struttura elefantiaca che andrà man mano alleggerita: altro che nuove assunzioni... - dovrà occuparsi, nei prossimi decenni, solo ed esclusivamente della gestione del Deposito Nazionale. Se davvero si vuole andare a protestare sotto la Prefettura di Vercelli, lo si faccia non per «salvare i posti di lavoro del nucleare nel Vercellese», ma per sollecitare il Governo a mandare avanti l’iter - fermo anch’esso da tempo - per l’individuazione e la costruzione del Deposito Nazionale. Da Trino, da Saluggia e dagli altri siti “nucleari” attuali, prima si riuscirà a mandar via Sogin - con i suoi costi assurdi e con il suo carico di radioattività - e meglio sarà.
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