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E' mancato a 92 anni

Giovanni Olivero, grande sindaco e grande saluggese

Cattolico, fondatore del gruppo “Comunità Nuova”, amministratore comunale, presidente dell'Usl di Chivasso, fece nascere l'associazione Vita Tre. I funerali domenica 31.

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Giovanni Olivero, ex presidente di Vita Tre ed ex sindaco

SALUGGIA. Nella tarda serata di giovedì 28 dicembre, a poco più di due mesi dalla dipartita della moglie Giuseppina Boggio, è mancato, all'età di 92 anni, Giovanni Olivero. A lungo è stato amministratore comunale: consigliere dal 1960 al '70, vicesindaco dal '70 al '75, sindaco dal '75 all'85, poi ancora consigliere. E' stato anche presidente dell'Usl di Chivasso, tra il 1979 e l'81. Nel 1990, con lo scopo di “migliorare la qualità della vita delle persone anziane e disabili”, fondò a Saluggia l'associazione di volontariato Vita Tre, che opera tuttora e si è poi “moltiplicata” in numerosi paesi del circondario.
Il rosario verrà recitato sabato 30 alle 20 nella parrocchiale di San Grato. Le esequie saranno celebrate domenica 31, sempre in San Grato, alle 15 con partenza dall'abitazione in via Maestra Donato.

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Giovanni Olivero - lo scriviamo noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, ma ancor più se ne accorgeranno i posteri - è indubbiamente la figura che più ha segnato la storia politica e sociale di Saluggia nell'ultimo terzo del Novecento. Una vita indissolubilmente legata al suo paese, alla sua “zolla” - così intitolò uno dei suoi tanti libri, che stillava saluggesità da ogni riga. Una Saluggia dove - amava dire - «anche le idee maturano prima, come l'insalata sulle terrazze della costa esposta al sole», un paese di cui era innamorato e di cui parlava continuamente: al passato, nei suoi studi di storia locale; al presente, nell'attività di amministratore comunale e poi di volontario; al futuro, quando, in vecchiaia, confidava agli amici le sue preoccupazioni per «come sarà questo paese tra venti o trent'anni, quando non potrò più vederlo».

La campagna e i ciabò. Era nato in una famiglia povera, e non si vergognava a dirlo. Finite le elementari, a undici anni era già nel laboratorio paterno a fabbricare i ciabò, gli zoccoli di legno che i contadini usavano allora, e a lavorare i campi intorno al paese. Il maestro, vedendolo sveglio e promettente, aveva consigliato ai genitori di fargli proseguire gli studi, ma la famiglia non ne aveva le possibilità, il ragazzo doveva portare a casa la pagnotta. Prenderà poi la licenza di scuola media inferiore più avanti, facendosi prestare i libri e studiando da privatista: «volevo capire, non farmi sempre spiegare le cose dagli altri, che magari non me le raccontavano giuste». Aveva anche un fratello, di un anno più giovane, che lavorava in campagna come lui: ma un pomeriggio d'estate, come usava allora quando non c'erano le piscine né le vacanze al mare, andò a fare un bagno in Dora per rinfrescarsi e non tornò più, risucchiato - come altri, purtroppo, a quei tempi - dagli infidi gorghi del fiume.

Lo sport e il teatro. I pochi divertimenti per i ragazzi saluggesi del dopoguerra sono giocare a pallone - e lui milita nella squadra del paese, alternando il calcio alla partecipazione alle gare di atletica leggera - e frequentare l'oratorio, dove - oltre al campo da pallone, certo - c'era un teatro, e una piccola compagnia filodrammatica, in cui recita e scrive i testi. «Il teatro - diceva - mi ha aiutato tanto: ero timidissimo, su quel palco ho imparato a parlare in pubblico, a vincere la soggezione che avevo fin da piccolo».

L'Azione Cattolica e la Dc. Come gran parte dei “ragazzi dell'oratorio” - titolo di un altro suo libro - si iscrive all'Azione Cattolica, di cui diviene presidente della sezione locale e vicepresidente diocesano, e poi presta servizio all'ufficio Acli, dove segue le pratiche di pensioni, mutua e infortuni dei compaesani: una presenza, quella nel “sociale”, con l'attenzione ai più poveri e ai più deboli, che con vari incarichi e mansioni caratterizzerà tutta la sua vita.

Il militare e il matrimonio. Svolto il servizio di leva, nel 1957 viene assunto in un'azienda elettrica a Torino, e lavorerà come impiegato all'Enel fino alla pensione. A ventott'anni sposa la compaesana Giuseppina Boggio. L'anno successivo inizia la sua attività di consigliere comunale: nella Democrazia Cristiana, ovviamente, di cui viene subito nominato capogruppo.

Fuori dalla Democrazia Cristiana. La permanenza nella Dc, però, dura poco. Il partito dello scudo crociato amministra Saluggia fin dal dopoguerra (le sinistre, qui, sono quasi inesistenti), ma Olivero e alcuni suoi giovani colleghi - cattolici aperti alle novità del Concilio Vaticano II, che inizia proprio in quegli anni - nella Dc stanno stretti. Non si trovano bene in «un sistema che non cerca il dibattito politico, non fa crescere le coscienze, non sviluppa la democrazia, ma si limita a riempire i propri serbatoi di fiducia popolare, ad organizzare la raccolta delle deleghe da affidare incondizionatamente alla gestione dei padrini del partito che, per quanto riguarda la Dc, spesso sono molto lontani dai principi cui la Dc dice di ispirarsi. Padrini che, in cambio dei voti ricevuti, fanno la vera politica per se stessi prima e per l'organizzazione poi, mentre all'affezionata clientela dispenseranno alcune briciole sotto forma di favori, beninteso da elargire sotto lo stretto controllo dell'organizzazione».
Olivero e amici fondano il circolo culturale “Faldella” e pubblicano un giornale, “il Fischietto”, che uscirà ogni mese per tredici anni, fino al 1976, finanziato con gli abbonamenti e un po' di pubblicità. Giornale su cui scrivono, senza lesinare critiche al partito, anche di questioni municipali saluggesi: «constatiamo che l'amministrazione comunale, emanazione del sistema politico esistente, non solo non è in grado, né ha voglia, né forse potrebbe incidere sui problemi reali della comunità, ma resta quasi a garantire che non si muova niente. Il consiglio comunale conta poco, per non dire nulla. Le decisioni si prendono fuori. Ci sono consigli occulti, organizzazioni collaterali che contano più di quelle ufficiali, benpensanti, tutta gente che non esce mai allo scoperto, non va in lista a farsi giudicare dalla popolazione, ma costituisce la vera struttura dell'organizzazione nella quale partito e consiglio comunale sono ridotti al ruolo di etichetta pubblicitaria. Il consiglio comunale ratifica solo le decisioni prese altrove, né saprebbe fare altro, tanto è il depauperamento culturale e politico che lo caratterizza».

Nasce “Comunità Nuova”. Alle elezioni comunali del 1964 la Democrazia Cristiana presenta la lista, che come sempre viene eletta al completo, ma è spaccata in due tronconi: all'esito del voto la segreteria del partito non rispetta gli accordi, Olivero e compagni vengono emarginati. Nel 1967, a malincuore, escono dal partito. Per Olivero, ragazzo di parrocchia e di oratorio, cresciuto e formatosi nel mondo cattolico, entrato in politica sotto lo scudo crociato, è una decisione tormentata: «rappresenta - racconterà poi - la sconfitta della speranza mai spenta di cambiare dal di dentro il mondo che mi ha cresciuto, al quale devo gli stessi concetti di democrazia e di giustizia la cui attuazione mi pone ora paradossalmente in conflitto con esso. E' la sensazione di abbandonare la casa del padre e tutte le sicurezze indiscusse che mi offriva, ed è anche la consapevolezza che non sarò capito dalla mia comunità o almeno da quella larga parte di essa che di partito e Chiesa fa tutt'uno, e per la quale sarò traditore. L'inevitabile contrasto con amici di lunga data, la cui amicizia sincera era stata un elemento prezioso nella mia vita e che per scelta o per inerzia erano rimasti su posizioni diverse o contrapposte, rappresenta l'aspetto più doloroso della scelta». Olivero e compagni indicono riunioni e incontri con la popolazione e il 2 luglio 1969, alla Trattoria della Pace (“Pin Cit”, davanti alla chiesa di San Bonaventura) costituiscono ufficialmente il gruppo di “Comunità Nuova”.

In Amministrazione. L'anno in cui a Saluggia cambia tutto è il 1970. Dopo un quarto di secolo di amministrazione democristiana, alle elezioni comunali, al termine di uno scrutinio incerto fino all'ultimo, la lista di Comunità Nuova supera di due voti quella della Dc e ottiene 11 consiglieri su 20. Il sindaco è Gualtiero Leone, Olivero viene nominato vicesindaco. Sarà poi sindaco nei due mandati successivi, dal 1975 al 1985. E' un periodo in cui Saluggia emerge nettamente, tra i paesi del circondario, per l'attenzione al “sociale”: nascono la “Cascina Primavera”, il distretto socio-sanitario (Olivero sarà anche, per un biennio, presidente della neonata Usl di Chivasso), l'asilo nido comunale, il “progetto giovani”, il centro anziani; si ampliano le attività della biblioteca, si organizzano cineforum e conferenze. Ma soprattutto sono anni di massiccia partecipazione dei saluggesi alla vita politica del paese: tante riunioni, presenza massiccia ai Consigli comunali, distribuzione di ciclostilati e giornalini autoprodotti. L'obiettivo di “Comunità Nuova” è quello di «sottrarre l'amministrazione comunale ai centri di potere nascosti e ridare ai cittadini il ruolo che ad essi compete nella comunità democratica». Olivero racconterà la sua esperienza di primo cittadino nel libro I sindaci vanno all'inferno, pubblicato nel 1992.

La fondazione di Vita Tre. Terminati i due mandati da sindaco, Olivero resta in Consiglio comunale ancora per un po', ma è un vulcano di iniziative e già medita altri progetti: nel 1990, quando ha quasi sessant'anni, con alcuni amici fonda l'associazione “Vita Tre”, rivolta alla terza età; un sodalizio che opera principalmente nel settore socio-assistenziale e “rivolge i suoi servizi prevalentemente agli anziani, senza escludere i disabili e le persone in difficoltà, e alla comunità di appartenenza, per soddisfare e prevenire i bisogni tipici della terza età o per mettere a disposizione della comunità le risorse che la terza età può offrire”. Si portano i pasti a casa agli anziani, li si accompagna in ambulatori ed ospedali per visite ed esami, si procurano loro stampelle, sedie a rotelle e ausili vari quando ne hanno bisogno. Si costituisce un laboratorio artigianale, un orto botanico, si organizzano momenti conviviali, pomeriggi a giocare e carte e a tombola, corsi di ginnastica dolce, gite, conferenze (l'Università della Terza Età): «cercando di aiutare gli anziani a essere loro stessi promotori del proprio benessere attraverso il volontariato». Vita Tre offre servizi e aiuti ma «ha soprattutto l'obiettivo di recuperare l’identità e il ruolo dell’anziano nella società, minacciato dalla solitudine, dall’emarginazione e dalla perdita, con il ritiro dal lavoro, di una funzione riconosciuta».

Vitra Tre, Appiani

La sede di Vita Tre a Palazzo Appiani

La prima sede è nei fabbricati del cortile di Palazzo Appiani, dove con il lavoro dei volontari e alcune donazioni di materiale viene costruito il “Centro Vita”, con salone e cucina. Qualche anno dopo Vita Tre si allarga alla contigua Casa Sereno, sempre in via Senator Faldella, dove vengono attrezzati gli uffici. L'associazione arriva ad avere, un un paese di quattromila abitanti, più di cinquecento iscritti.
Quello di Vita Tre è un modello che funziona e che nei decenni successivi si riproduce, per gemmazione, in molti paesi del circondario: dal 1993 a Moncrivello, dal '99 a Torrazza, poi a Cigliano, Viverone, Rondissone, Borgo d’Ale, Fontanetto Po e Verolengo.

Vita Tre, Casa Sereno

Vita Tre - Casa Sereno

Studioso di storia locale. Giovanni Olivero non aveva potuto frequentare il liceo e l'università, ma da sempre era appassionato di storia locale. Nel tempo libero andava in archivi e biblioteche, prendeva appunti, faceva fotocopie, approfondiva aspetti del passato recente e remoto di Saluggia e talvolta anche ne scriveva. Raccoglieva manoscritti, fotografie, diari, aveva anche dato alle stampe un libro con le interviste ai saluggesi inviati al fronte nelle due guerre mondiali. Forse non possedeva il “metodo” dello storico, ma vi suppliva con un'innata curiosità soprattutto nei confronti delle persone: aveva compreso che la storia di una comunità è fatta dalle storie delle persone che vi hanno vissuto; che dietro ogni torre, castello, muro diroccato c'erano stati, in ogni epoca, potenti e poveracci, privilegiati e vessati, che avevano calpestato le stesse pietre su cui ora camminava lui. Non gli mancava, poi, il gusto dell'aneddoto, e con pochi sapidi tratti ricordava vita e imprese - eroiche, drammatiche, divertenti - di saluggesi che aveva conosciuto in gioventù, o che qualcuno gli aveva raccontato.

Le scartoffie e la moglie. Della casa di Giovanni Olivero ricordo un grande studio pieno di cassetti, scaffali, cartelline sulle scrivanie, faldoni, buste di fotografie, scartoffie varie, una macchina per scrivere (poi sostituita, dopo qualche resistenza, dal pc). Ricordo soprattutto, di quei colloqui serali su questioni di storia saluggese, la presenza costante e discreta della moglie, Giuseppina; una coppia che davvero si completava a vicenda: Giovanni era l'uomo degli ideali, dei grandi progetti, dell'entusiasmo, del coinvolgimento delle persone; Pina era il pragmatismo, la capacità di esaminare le questioni in tutti i loro aspetti, la consigliera attenta, il punto di riferimento senza il quale lui - confidava, con pudore - si sentiva perduto. Lei se n'è andata due mesi fa, ora lui l'ha raggiunta, e sono di nuovo insieme.

Giovanni Olivero con la famiglia

Olivero con la moglie Giuseppina e la figlia Paola

L'eredità politica. L'azione politica di Giovanni Olivero, al di là delle scelte personali e delle decisioni amministrative, è stata sempre caratterizzata da una stella polare: allargare il più possibile la partecipazione, informare i cittadini e coinvolgerli nel dibattito pubblico. Sapeva che l'esercizio della democrazia è faticoso, conosceva il buio delle notti a discutere con compagni e avversari, si doleva del tempo sottratto alla famiglia per studiare i documenti o partecipare a riunioni talvolta estenuanti. Tutto difficile, certo, ma detestava «quelli che fanno tutto senza spiegare nulla, né lo saprebbero. Il loro è un mandato fiduciario, di fiducia immensa, una delega in bianco che va da un'elezione all'altra, con garanzia, questa sì che conta, che tra le due elezioni la gente non sarà più disturbata». Per lui c'era un punto fermo, messo per iscritto fin dalla campagna elettorale del '70: «la partecipazione della gente è alla base del metodo scelto per amministrare». Un modo di fare politica, da cattolico, lontano dalla prassi democristiana del dopoguerra e molto più vicino a quello che si ritrova negli scritti di Don Milani: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l'avarizia».
Gli anni di "Comunità Nuova" sono stati, per Saluggia, quelli in cui davvero «si discuteva di tutto»: in Municipio, nelle sedi di partito, in piazza, nei bar. Uno squarcio nella consueta indifferenza dell'opinione pubblica che si è chiuso con la fine del secolo, per un generale riflusso nel privato e perché a Saluggia le Amministrazioni comunali dell'ultimo ventennio non hanno saputo o voluto proseguire su quella strada, e tra un'elezione e l'altra la maggior parte dei saluggesi si disinteressa completamente della res publica. La strada della "democrazia partecipata" Giovanni Olivero l'ha indicata e praticata, come forma più alta della politica; sono tempi bui, ma prima o poi su quella strada ci si rimetterà in cammino.

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Il “decalogo dell'amministratore”

SALUGGIA. (u.l.) - Alla fine degli anni Sessanta, uscito dalla Democrazia Cristiana e fondato il gruppo di Comunità Nuova, Giovanni Olivero scrisse con i suoi compagni un documento in dieci punti: norme di comportamento che, come amministratori comunali e sostenitori, si impegnavano a rispettare; «un po' artigianale nella forma - disse poi -, così come noi eravamo (e siamo rimasti) artigiani della politica, un po' tagliato con l'accetta ma sufficientemente significativo». E' questo.

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1. L'amministratore comunale è al servizio del popolo. La sua elezione rappresenta la chiamata del popolo a svolgere un servizio di fiducia del quale dovrà rendere conto alla sua coscienza e alla comunità.
2. Dallo svolgimento del suo servizio non deve trarre nessun vantaggio personale. Egli deve dare in beneficenza eventuali “omaggi” ricevuti per il suo servizio, che non avesse osato rifiutare. Dev'essere anche disposto a rimetterci di tasca propria (limitatamente alle sue possibilità) pur di assolvere scrupolosamente il suo mandato nell'interesse della comunità.
3. Non deve col suo servizio favorire amici, parenti o persone influenti, né trattare “amministrativamente” con maggiore riguardo le persone più altolocate, potenti e istruite (che, di solito, sanno districarsi da sole). Egli deve trattare il pubblico denaro con più scrupolo del suo, essendo quello della cassa comune che la comunità ha posto nelle sue mani perché fiduciosa della sua onestà.
4. Deve avere sufficiente conoscenza dei problemi della sua comunità (scuole, posti di lavoro, case, lavori pubblici) e degli strumenti per risolverli. E' in base a questi requisiti e non ad altri (nome conosciuto, stemma di partiti, ecc.) che deve attendersi il mandato del popolo. L'amministratore privo di queste conoscenze diventa un pericolo pubblico perché dovrà sempre accodarsi a chi è più abile a carpire la sua fiducia.
5. Deve conoscere le leggi che regolano il funzionamento del consiglio e dell'amministrazione. Senza questa conoscenza non potrà esplicare la sua funzione né districarsi fra le formalità burocratiche che sovente intralciano e rendono difficoltosa l'attività dell'amministrazione.
6. Deve essere pronto a rinunciare piuttosto all'incarico (qualsiasi carica abbia) e dimettersi qualora pressioni esterne, gruppi di potere o legami di qualsiasi genere gl'impediscano di svolgere, in modo efficiente, chiaro e onesto, il suo mandato nell'esclusivo interesse della comunità. E' pure opportuno che si dimetta quando si renda conto di non essere all'altezza della situazione ma solo “strumento” per le manovre decise da altri.
7. Prima di accettare il mandato deve accertarsi di non avere interessi economici che siano in contrasto con quelli del Comune. Sarebbe umana la tentazione di curare prima i suoi a scapito di quelli della comunità.
8. Dev'essere attento e sensibile per cogliere il giusto senso della critica popolare, essendo questa, in mancanza d'altro, l'unica voce che viene veramente dal popolo. Dev'essere soprattutto attento alla critica dei giovani poiché da essa nascono indicazioni del modello di società da costruire oggi per il mondo di domani.
9. Deve adoperarsi perché il suo operato e di tutta l'amministrazione sia di pubblico dominio. Delle sedute consigliari deve dare avviso agli elettori. E questo non solo per dovere di chiarezza, ma per mettere il popolo in grado di rettificare eventuali errori con la critica.
10. Deve essere convinto che la sua azione non si esaurisce nel far quadrare il bilancio o nella rigida applicazione delle leggi. Tutti questi non sono che strumenti da utilizzare nel più fruttuoso dei modi per servire l'«uomo», tutti gli uomini con particolare riguardo per quelli che, per la modesta condizione sociale e per il basso livello culturale, non sanno servirsi da soli.

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