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MILANO. Intesa ha 10 anni, lancia sfida che cambia mercato

MILANO. Intesa ha 10 anni, lancia sfida che cambia mercato

Intesa sanpaolo

All'annuncio di nozze pareva così imponente che se ne parlò a lungo come della 'Superbanca'. Al decennale - la banca sorta dalla fusione tra Compagnia di San Paolo e Banca Intesa è nata il primo gennaio del 2007 - Intesa Sanpaolo arriva come realtà talmente consolidata da esser pronta a crescere ancora, com'è parso chiaro con l'annuncio 'bomba' di martedì: il management valuta opportunità di rafforzamento, incluse possibili "combinazioni industriali" con Generali, è stato detto. Prima banca del Paese con il 16% del mercato, 11,1 milioni di clienti, 4.047 filiali in Italia e una presenza in undici paesi. E' stata tra i pionieri della governance duale, adottata alla fusione, e dalla scorsa primavera fa da apripista al modello monistico. Il suo 'nume tutelare' Giovanni Bazoli, dopo la regia delle varie fusioni che han portato alla nascita della prima banca italiana, compiuta la 'missione', ha passato il testimone in primavera diventando presidente emerito (benché ci siano pochi dubbi su un suo ruolo ancora centrale). In questo scenario, il decennale di Intesa si celebra in un clima di grande attesa per la possibile rivoluzione negli assetti finanziari, in scia alle scelte che prenderà su Generali.

Ci sono innanzitutto le fondazioni azioniste della banca: la Compagnia di San Paolo di Torino con il 9,34%, Cariplo con il 4,836% e Fondazione Cr Padova e Rovigo (3,305%). Un'eventuale diluzione ne ridurrebbe il potere, come ormai accaduto agli enti azionisti di Unicredit, scesi al 6,75% (Crt al 2,3% Cariverona al 2,2%), prima che l'aumento da 13 miliardi di euro ridisegni ancora i pesi, o come avvenuto in Mps dove la Fondazione è praticamente scomparsa (0,01% prima della resa al salvataggio di Stato). E sarebbe un po' la chiusura di un'era, o quanto meno del percorso seguito dalle fondazioni bancarie, dopo la privatizzazione con la legge Amato-Carli del 1990.

Poi c'è la stessa Generali, e la 'Galassia' che crea con Mediobanca, storico azionista e da oltre un decennio al 13%. Il Leone alato è l'eterna preda di scorrerie finanziarie, patti e tradimenti, con ribaltoni al vertice, spesso cartina tornasole dei mutati equilibri negli assetti del potere finanziario.

Quando nel 1999 lo storico presidente Antoine Bernheim venne cacciato per far posto ad Alfonso Desiata (parlò di "regolamento di conti") sullo sfondo c'era ad esempio l' 'affronto' dell'uscita di Gerardo Braggiotti da Mediobanca e la discesa in campo al fianco di Unicredit nell'Opa su Comit (poi respinta).

E' impossibile dar conto di tutti i colpi di scena e delle ricorrenti 'battaglie sulle Generali', spesso proprio in questa stagione e in prossimità dell'assemblea annuale, non solo quando l'amministratore delegato veniva cambiato ogni anno. Questi giorni però un po' ricordano quelli della guerra che nel 2003 si chiuse con la pace di Mediobanca, dopo l'assalto alle Generali di Unicredit, Capitalia e Mps, che avevano rastrellato il 10% per "difenderne l'italianità" (Intesa, già azionista Generali, rimase al margine). Si arrivò a un riequilibrio dei pesi nell'azionariato Mediobanca e della sua governance, con l'uscita dell'A.d Vincenzo Maranghi, il 'delfino' di Enrico Cuccia.

L'istituto si dotò di un patto con tre anime, soci bancari, soci esteri e soci industriali. Quell'assetto fu poi archiviato a vantaggio degli equilibri attuali in cui il primo azionista è Unicredit (8,6%), seguito da Vincent Bolloré (8%) e l'universo Mediolanum (3,3%). La storia recente, comunque, dice che quando Generali starnutisce, Mediobanca ha l'influenza. Ed è così inevitabile che editorialisti, analisti finanziari e speculazione, guardino anche a Piazzetta Cuccia interrogandosi su cosa le accadrà. A fine anno il patto di Mediobanca scadrà e andrà al rinnovo automatico per altri due anni tra quanti non abbiano dato disdetta entro fine settembre (purché le quote sindacate restino oltre il 25%). La prima domanda è allora su cosa farà Unicredit, che sta riscrivendo la propria identità tra dismissioni per 7 miliardi e un aumento di capitale da 13 miliardi che ne muterà profondamente l'azionariato.

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