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Rapita e abusata a 13 anni da una rete di pedofili. Il rapimento e l'omicidio di Maria Teresa Novara: un incubo lungo otto mesi

Dalla prigionia nella cascina della Barbisa alla morte per asfissia: una giustizia mai pienamente compiuta e le ombre che ancora avvolgono il caso

Rapita e abusata a 13 anni da una rete di pedofili. Il rapimento e l'omicidio di Maria Teresa Novara: un incubo lungo otto mesi

L'incubo che ogni bambino ha vissuto almeno una volta è quello dell’uomo nero che entra nella camera. Ed è proprio così che inizia la storia di Maria Teresa Novara, una vicenda di orrore e disperazione che, esattamente 56 anni fa, culmina con il ritrovamento del corpo senza vita di una bambina, prigioniera in una cella sotterranea.

E' di Maria Teresa, rapita otto mesi prima, il 16 dicembre del 1968, all’età di 13 anni, torturata, seviziata e violentata da centinaia di uomini. 

Viveva nella casa degli zii a Villafranca d'Asti. Lì perché,  da Cantarana dov'era residente, il tragitto per raggiungere la scuola sarebbe stato troppo lungo e faticoso durante i mesi invernali. La decisione di farla restare dagli zii avrebbe dovuto proteggerla dalle difficoltà del viaggio quotidiano, ma nessuno poteva immaginare che proprio lì sarebbe iniziato il suo incubo.

Due uomini, Bartolomeo Calleri e Luciano Rosso, penetrano nella casa in silenzio.

Noti alle forze dell'ordine per vari furti, quella notte decidono di rapire la giovane.

Non sappiamo se la bambina si accorse subito di quello che stava accadendo, ma la paura fu tale che Maria Teresa fece pipì a letto dallo spavento

La ragazzina viene legata, imbavagliata e portata via con una brutalità glaciale. Nessun rumore, nessun allarme: solo il freddo silenzio della notte accompagna i loro passi verso l’oscurità, con la piccola Maria Teresa chiusa in un sacco.

Un piano vile e ben orchestrato, in cui la violenza è solo il preludio di un incubo ancora più terribile.

Il giorno successivo, un biglietto scritto di pugno dalla stessa Maria Teresa Novara arriva nelle mani dei familiari. Le parole, fredde e prive di vita, riportano un messaggio che sembra confondere tutti: "Sono scappata per amore, non cercatemi".

I rapitori avevano costretto la bambina a scrivere quelle righe per depistare le indagini e dare l’impressione di una fuga volontaria. Per un breve periodo, l'illusione regge, lasciando i parenti e le autorità nella speranza che la giovane sia fuggita di sua volontà.

stampa

La realtà, però, è ben diversa. Maria Teresa non è scappata, non ha scelto di allontanarsi. È stata rapita e segregata in una cascina chiamata la Barbisa, situata a Canale d'Alba  in provincia di Cuneo (oggi solo Canale, nel tentativo di nascondere che si tratta di "quel paese").

Legata, incatenata e costretta a subire violenze ripetute, Maria Teresa viene messa a disposizione di una rete di pedofili.

Un giorno, Calleri si ritrova il cortile pieno di cacciatori, personaggi facoltosi e altolocati. Fu l'inizio del calvario per Maria Teresa. Anziché chiedergli di liberarla o correre a denunciarlo, ricattarono il rapitore.

Se avessero parlato, sarebbe andato in carcere per rapimento, se invece... I cacciatori non pretendevano di avere Maria Teresa per niente, erano disposti a sborsare. Il pregiudicato si adatta benissimo e comincia a organizzare festini ai quali forse portava anche prostitute di Torino e Chivasso. I cacciatori cominciano a invitare gli amici, e gli amici degli amici.

Per "convincere" Maria Teresa, Calleri ricorre a mezzi spicci: "La scopa sulla testa fa male"  scrive Maria Teresa.

I giorni trascorrono lentamente nella prigione sotterranea.

Maria Teresa vive nel terrore, incatenata in un seminterrato umido e buio, lontana da qualsiasi contatto umano che non sia quello dei suoi aguzzini. Lancia bigliettini oltre il muro di cinta, sperando che qualcuno li trovi. Ma nessuno interviene

L’autopsia, eseguita dopo il ritrovamento del suo corpo, svela l'orrore: abusi sessuali ripetuti, atti di violenza così estremi da lasciare segni indelebili su un corpo già devastato dalla paura.

Le indagini sul rapimento sembrano non portare a nulla fino al 5 agosto 1969, quando Bartolomeo Calleri e Luciano Rosso tentano un furto a Torino. Scoperti dalle forze dell'ordine, cercano di scappare, gettandosi nel fiume Po.

Calleri non sopravvive: affoga nel tentativo di scappare, mentre Rosso viene catturato poco dopo, esausto e terrorizzato.

L'8 agosto, il corpo di Calleri viene ripescato a sei metri di profondità.

Da una ricevuta che aveva in tasca i carabinieri di Torino scoprono il recapito e si precipitano a Canale, incappando però in Giorgio Verrastro, uno che ama autodefinirsi "lo sceriffo di Canale", anche se, magroletto, dello sceriffo non ha la taglia e la stoffa. Lo sceriffo si dimostra inflessibilmente "legalitario"; senza un mandato non avrebbe permesso si facesse una perquisizione nonostante l'urgenza dettata dal rischio che qualcuno facesse sparire i corpi di reato.

Però la sera stessa va lui di persona senza mandato a perquisire la Barbisa, accompagnato da Antonio Borlengo, un contadino del posto.  In ogni caso il primo sopralluogo dei carabinieri è deludente. 

Vedendo le scritte su numerosi giornaletti ammucchiati, l'appuntato Pietro Barberis si insospettisce. Lo sceriffo ne prende uno, lo buttò a terra e dice: "Se questa è Maria Teresa, io sono Napoleone".

Trovano un mitra Sten e una rivoltella e li sequestrano, ma non si accorgono della catena utilizzata per Maria Teresa e neanche dei resti dei festini. C'è un locale chiuso a chiave. Fanno saltare la serratura. Vedono una botola, ma non proseguono l'ispezione.

Maria Teresa è lì, sotto i piedi, ancora prigioniera, incatenata in quel seminterrato fetido e buio.

Sicuramente qualcuno le ha portato da mangiare, dato che furono ritrovati un panino e mezzo.

il

Corriere di chieri

iario

L’11 agosto 1969, qualcuno chiude con dei fogli di giornale le prese d’aria della cella, trasformando quel luogo infernale in una tomba.

Solo durante il terzo sopralluogo, il 13 agosto 1969, ci si accorge di un mucchio di fieno e due pesanti lamiere stradali, dal peso di due quintali e mezzo ciascuna, che non hanno motivo di esserci in una casetta in collina. Vengono sollevate e spunta la botola. L'appuntato Giovanni Sisti scende le scale e si trova di fronte una porta sprangata. Riesce ad aprirla e, meravigliato, grida: "Brigadiere! Qui c'è una ragazza che dorme!".

Su un lettino mezzo sfondato, più simile alla cuccia di un cane, il corpo ancora caldo di Maria Teresa deceduta da pochissimo con una catena di circa un metro alla caviglia. Di fianco alla branda un bottiglione vuoto e un secchio usato come latrina, circondata da giornalini di Diabolik sui cui margini la ragazza ha scritto disperatamente: "Sono Maria Teresa Novara, sono la ragazza rapita".  Su un quaderno, sempre la stessa frase, ripetuta innumerevoli volte.

L'atroce vicenda inorridisce l'Italia. Le vendite dei quotidiani superarono quelle dell'allora recente sbarco sulla Luna, ma dato che si era "prostituita", Gregorio Ferrero, il Procuratore di Alba, non ritiene fosse il caso di aprire un' inchiesta per omicidio...

Nessuno del posto denuncia i colpevoli, la stampa non stigmatizza i silenzi. Tutti "coprono".

Persino "Famiglia Cristiana" trova da moralizzare sul fatto che nello sgabuzzino erano state trovate riviste "pornografiche" (fumetti di Diabolik che le passava il carceriere) indicandole come causa del suo degrado morale.

"L'Unità " si inventa che erano state trovate le prove che era fuggita spontaneamente e che il rapimento era stato "una ingenua messinscena".

Altri giornali fecero di peggio, diedero libera sfogo a "giornalisti" maschilisti, trogloditi e deviati sessuali, che si mettono a fare senza alcun ritegno pesantissime illazioni sulla piccola morta, ironizzando volgarmente persino sulla madre.

La verità è ben diversa: Maria Teresa era una bambina di 13 anni, rapita e brutalmente violentata da centinaia di uomini, come confermato dall'autopsia condotta dal professor Baima Bollone.

Le indagini sono superficiali, e il caso si chiude rapidamente. Persino il nome di uno degli uomini che Maria Teresa ha scritto sul bordo di un quaderno viene "cancellato". Non si apre un fascicolo per omicidio, ma solo per rapimento e sequestro di persona. Con Bartolomeo Calleri morto, il caso viene praticamente archiviato.

Luciano Rosso, catturato dopo la fuga, viene inizialmente assolto per insufficienza di prove. Solo in seguito, grazie a un processo d’appello, viene condannato a 14 anni di reclusione per il suo coinvolgimento nel rapimento.

Ma la giustizia non arriva mai del tutto: nessuno degli uomini coinvolti nei festini nella cascina della Barbisa viene identificato o punito. Le ombre dell’omertà e delle complicità coprono tutto, lasciando la sensazione che molte verità siano state insabbiate. 

E dire che un paese intero era stato testimone di un via vai di macchine alla cascina di Calleri.

Durante il processo, non vengono approfonditi i legami sospetti che collegano altri luoghi e persone all'orrore vissuto dalla ragazzina. Uno di questi luoghi è Chivasso, dove si dice che Maria Teresa fosse stata portata in una casa di frazione Betlemme durante i mesi della sua prigionia, forse quando le strade per la Barbisa erano impraticabili a causa della neve.  Secondo alcuni testimoni, la giovane era stata tenuta prigioniera anche in un’abitazione di Piazza Kennedy a Borgaretto di Beinasco. Queste informazioni, però, non vennero mai pienamente verificate né approfondite.

Il silenzio permette a molti degli aguzzini di Maria Teresa di sfuggire alla giustizia. Si parla di personaggi "rispettabili", di uomini potenti che, pur sapendo cosa accadeva in quella cascina, non solo non intervennero, ma si servirono della giovane prigioniera per soddisfare i propri desideri perversi. 

Con il tempo, l'interesse per il caso diminuisce. La giustizia si allontana e la memoria di Maria Teresa Novara inizia a sbiadire. Solo anni dopo, qualcuno propone di intitolare una strada alla giovane vittima nel suo paese natale, Cantarana. Tuttavia, la famiglia, devastata dal dolore e dalla rabbia per una giustizia mai completamente ottenuta, dice di no.

Sarebbe stato come riaprire una ferita mai rimarginata. Meglio un basso profilo, lontano dai riflettori.

funerali

Le nuove indagini, avviate molti anni dopo, non portano alle svolte sperate. Vecchi testimoni, come Antonio Borlengo, che sapeva della presenza della bambina nella cascina, vengono risentiti, ma non emergono nuovi elementi decisivi. Borlengo, che all'epoca era stato arrestato e poi rilasciato, non fornisce informazioni capaci di ribaltare il corso della giustizia.

Quella di Maria Teresa Novara resta, quindi, una storia di giustizia mancata, di una verità mai completamente svelata. La rete di uomini che abusò di lei, che contribuì alla sua prigionia e che assistette alla sua morte senza mai intervenire, rimane impunita. Le indagini chiuse con la condanna di un solo uomo, Luciano Rosso. La sensazione che molti altri siano sfuggiti alla giustizia è forte.

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