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LEINI. Le radici di Willie Peyote in quella villetta di via Volpiano

LEINI. Le radici di Willie Peyote in quella villetta di via Volpiano

Il piccolo Guglielmo con mamma Michela e papà Oscar

Per noi tutti è Willie Peyote, per gli amici è “Gugi”. Per mamma e papà sarà sempre Guglielmo. Le radici del rapper-cantautore che ha stupito l’Italia sul palco di Sanremo, portandosi a casa il premio della critica per il brano “Mai dire mai (La Locura)”, sono qui ad un passo, in una villetta di via Volpiano a Leini. Vi abitano due 59enni, Oscar Bruno e Michela Guaraglia: i genitori di Willie Peyote.

Oscar passa l’infanzia a Torino, in Barriera di Milano, e nel ’70 si trasferisce a Leini con la sua famiglia. Michela nasce e cresce nel biellese. I due s’incontrano, si conoscono, s’innamorano. Si sposano e prendono casa, lì dove sono ancora oggi. Nasce Guglielmo, nascono le sorelle Camilla (futura mamma di Margherita e Matilde) e Cecilia. Sotto a quel tetto c’è qualcosa che non manca mai: la musica. Quella suonata, innanzitutto. «L’amore per la musica, nella mia famiglia, è stato tramandato di padre in figlio - racconta Oscar -.  Mio padre suonava la fisarmonica, io ho sempre suonato la batteria, fin da ragazzo, poi è toccato a Guglielmo. Anche Michela suona, il pianoforte». Con le bacchette in mano, Oscar nel corso degli anni ha fatto parte di diverse formazioni, spesso insieme ad Alex Loggia, chitarrista degli Statuto. Tra le esperienze che ricorda con piacere, quella nei “Mr. Tokyo & The Beat Goes On”. «Ma l’importante per noi era suonare, ci bastava questo, qualunque fossero i compagni di viaggio». Oggi Oscar e Michela suonano insieme,  per diletto, nella sala prove che hanno realizzato a casa qualche anno fa.

Ma non c’è solo la musica suonata, nella vita della famiglia Bruno. C’è anche quella ascoltata. «Da Billy Joel a Bob Marley fino a Jovanotti, insomma qualunque genere ma solo cose belle. Perché la musica è come il vino, se è buono si beve».

È in questo ambiente musicalmente molto favorevole che Willie, Gugi, Guglielmo muove i primi passi. «Quand’era appena nato, mentre lui dormiva al piano di sopra, io con il mio gruppo suonavo in cantina - sorride Oscar -. Non ci fermavano fino alle 23, quando Michela veniva a spegnere le luci ordinandoci di smettere». «Eh, mi vibravano i bicchieri nella credenza» ironizza lei.

Il primo strumento al quale si avvicinò il futuro Willie Peyote è il basso. Prese lezioni da un amico del papà, il bassista che suonava per gli Statuto.  «Prima di approcciarsi al rap, fece alcune esperienze di gruppo - prosegue Oscar -. Suonò in un complesso rock con ragazzi di Leini, Settimo e Torino, i “Larsen”. Negli anni delle superiori, al liceo Giordano Bruno, si avvicinò al rap, cominciando ad ascoltare gli artisti più famosi, da Eminem a Fabri Fibra. Ma ben presto si staccò dal genere e si mise a suonare un altro strumento, la batteria, scrivendo anche i testi per un nuovo gruppo, i “Giants Squids”». Nel periodo tra la fine del liceo e l’inizio dell’università (Scienze Politiche indirizzo Studi Internazionali), Guglielmo si avvicinò nuovamente e con più forza la mondo del rap. «Scoprì che con questo genere avrebbe potuto dire molte più cose che con i testi tradizionali - spiega il padre -. Un amico milanese gli fece ascoltare i dischi di Fritz Da Cat, poi venne a sapere che Will Smith, che adorava per la serie di “Willie il principe di Bel Air”, faceva il rapper». Fu lì che gli si aprì un mondo. Guglielmo recuperò i classici italiani della “Golden Age”, a partire dai Sangue Misto (Neffa, Deda e Dj Gruff), che poi citerà in molte canzoni, passando per artisti come Frankie hi-nrg e gli Articolo 31, per arrivare ai grandi americani come Notorius Big e Tupac.  «Decise di provare a fare questo tipo di musica e realizzò il primo demo, “Appersonal”,  grazie al quale capì chiaramente che questa cosa gli piaceva. Alcuni pezzi li pubblicò su YouTube e peraltro ottennero un discreto successo. L’unico commento che non gli piacque fu quello dell’insegnante di basso, che gli disse che avrebbe dovuto stare di più sul beat. All’inizio se la prese un pochino, ma poi si rivelò un consiglio molto importante per il suo percorso. Oggi credo che Guglielmo sia anche tecnicamente bravo, abbia quello che in gergo chiamavano “flow”». 

Così cominciò la lunga gavetta che lo porterà alla consacrazione. Andò a vivere da solo, prima a Leini poi a Torino, e cominciò a lavorare per sopravvivere. Dal call centers alla consegna delle pizze, a bordo della sua Panda. Nel frattempo scriveva e ascoltava.  «Nostro figlio capì che voleva fare questo da grande, senza pensare di poter diventare famoso, di fare soldi, ma solo per il gusto di farlo, perché ne aveva bisogno -  proseguono i genitori -. Non fu semplice. Il primo disco prodotto da terzi, “Manuale del giovane nichilista”, venne concepito, scritto e praticamente pubblicato autonomamente su una piattaforma internet. Quel disco è ancora oggi il suo manifesto, anche se negli anni ha cambiato un po’ il modo di scrivere».

La gavetta, dicevamo. È stata molto lunga e faticosa. «Noi partecipammo ai primi concerti, sul palco c’era Guglielmo con la sua crew e sotto non c’era quasi nessuno - raccontano Oscar e Michela -. Lui aveva già in mente il progetto di poter fare un giorno un percorso che in Italia non si era mai visto, ovvero di fare rap con una band, con gli strumenti. L’esperienza della sala prove era ciò che gli piaceva, perché lì possono nascere alchimie particolari che danno vita ad un buon prodotto musicale».   

A Torino si avvicinò al collettivo “Funk Shui projet”, col quale pubblico un interessante album dalle sonorità funk e hip hop. Vi faceva parte anche Davide Shorty (anche lui premiato a Sanremo tra le giovani proposte).

Fu ad un concerto di Caparezza che capì quel che voleva dalla vita. «C’erano 20mila persone di svariate età, dai 5 ai 70 anni, tutte prese bene sotto il palco a cantare e ballare. Voleva arrivare a questo senza annacquare la sua musica».

Tassello dopo tassello, Guglielmo cominciò a farsi conoscere nell’ambiente rap. Il primo brano a regalargli grande notorietà fu “Glik”, dedicato a quello che allora era il capitano del Toro. «In quell’anno Glik si fece espellere nei due derby, era un po’ il simbolo del tremendismo granata - sorride Oscar -. Guglielmo scrisse di getto un pezzo idealizzando questa figura proletaria che si sposa molto bene con il Toro, insomma la figura dell’uomo che deve sudarsi la pagnotta, che non ha la pappa pronta. Io conoscevo Giacomo Ferri, team manager del Torino, allora combinammo un incontro alla Sisport nel quale Guglielmo fece ascoltare il pezzo al capitano granata. Glik arrivò in ciabatte e pantaloncini ad ascoltare il pezzo, probabilmente non capì nulla, ma mio figlio uscì dal centro sportivo tutto gasato. Pubblicò il video e poi divenne virale in Polonia, cominciarono a telefonargli dalle tv e dalle radio polacche per intervistarlo. Quello fu il suo primo brano di successo, la curiosità è che nel video c’era anche il suo amico juventino Shade, si sono sempre un po’ presi in giro l’uno con l’altro per la loro fede calcistica differente. L’anno scorso Dazn li ha chiamati tutti e due per commentare i derby da bordo campo, ma Guglielmo mi ha confessato che non ci andrà mai più: da tifoso sfegatato, avrebbe fatto invasione di campo se il massaggiatore non l’avesse tenuto per la giacca. Insomma, alla fine mi ha detto:  “Papà, è meglio se me ne sto in curva”».

L’amore per il Toro nacque in famiglia. Guglielmo giocò per diversi anni nella società calcistica leinicese e cominciò a frequentare lo stadio, appassionandosi alla storia granata e soprattutto al capitano Giorgio Ferrini. «Gli piace andare allo stadio perché in quei 90 minuti si creano alchimie con persone che con te hanno solo quella cosa lì in comune, hai un legame di un certo tipo. Un po’ una zona franca dove puoi essere un po’ irrazionale».

Il brano “Glik” entrò a parte del disco “Non è il mio genere, il genere umano”. Poi arrivarono nel 2016 “Educazione Sabauda” e, l’anno successivo, “Sindrome di Tôret”. «Nel 2017 fece un tour da 103 date in 14 mesi, con molti sold out - prosegue Oscar -. Anno dopo anno, disco dopo disco, concerto dopo concerto, Guglielmo è riuscito a costruirsi un seguito importante. “Educazione Sabauda” l’ha portato in giro suonando il basso in qualche pezzo insieme al chitarrista, mentre per il disco successivo si è portato dietro una band di amici. Con “Iodegradabile” ha cominciato a lavorare con musicisti professionisti di alto livello. Insomma alla fine ce l’ha fatta,  ha raggiunto l’obiettivo di fare il rap suonato, ma l’ha sudato non poco. A me è sempre piaciuto che facesse questa cose come se non ci fosse un domani, sempre al meglio delle sue possibilità. Nel tempo è cresciuto, ha frequentato persone più brave di lui, si è migliorato. C’è anche un filo conduttore nei suoi testi, nei brani di oggi si possono riconoscere le stesse tematiche che trattava nel 2006 nel “Manuale del giovane nichilista”. È sempre stato molto coerente e autentico nella sua musica».

Oltre allo zoccolo duro torinese e piemontese, Willie Peyote ha saputo farsi conoscere e apprezzare in tutta Italia. «Ovunque vada, diventa amico delle persone del posto, da Bologna a Genova, da Roma a Palermo. Gli piace farsi contaminare dalle diverse tradizioni italiane, d’altronde fa parte di una famiglia che ha fatto della tolleranza una ragione di vita. Non siamo tutti uguali, siamo tutti diversi, e la bellezza sta proprio in questo».

Caratteristico dei brani di Willie Peyote è l’approccio al sociale, all’antifascismo, a temi “impegnati”, forse prendendo spunto da ciò che il rap rappresentava nei primi anni in quanto a rivendicazione di diritti sociali. «A livello di contenuti è un ragazzo di Sinistra, ha anche prestato la sua faccia ad alcune battaglie in cui crede molto, ad esempio quella dei No Tav. Non ha mai avuto paura di dire quello che pensa, anzi ha sempre avuto il coraggio delle sue idee, anche a costo di non piacere al pubblico. Una delle prime cose che ho cercato di insegnargli è che non si può mai piacere a tutti. Lui non ha mai nascosto questa sua educazione, è un ragazzo cresciuto ai giardinetti. Ambienti in cui trovi persone vere, autentiche, schiette, che a lui sono sempre piaciute molto». 

Quest’anno è arrivato Sanremo. Un evento importante per Guglielmo ma anche per tutta la sua famiglia, profondamente orgogliosa di vederlo salire sul palco dell’Ariston. «Per noi è stata una full immersion, io ho preso una settimana di ferie - ammette Oscar -. È stata una bella esperienza. La prima sera si è vista un po’ la tensione, poi si è fatto il regalo di cantare “Giudizi universali” con Samuele Bersani. Alla fine è andata molto bene, sul palco ma anche fuori. Ha avuto la possibilità di fare una diretta col maestro Peppe Vessicchio, il simbolo di Sanremo, la reincarnazione di Giuseppe Verdi. Nei giorni scorsi Vecchioni, uno che ha scritto “Luci a Sansiro” e “Samarcanda”, si è presentato in tv  per parlare 10 minuti di Guglielmo. Quando ottieni certe soddisfazioni, vuol dire che sei sulla strada giusta».

A dire la verità, mamma e papà non hanno mai pensato che Willie potesse vincere il festival, nonostante si fosse classificato secondo nella classifica provvisoria. «Al televoto c’erano sicuramente persone più forti, parliamo di una audience di quasi 20 milioni di persone. Non puoi arrivare dal nulla e pensare di vincere. Guglielmo su quel palco ci è andato perché era l’unico sul quale avrebbe potuto esibirsi quest’anno e perché voleva dire delle cose. È andato all’Ariston per criticare tutti e ha preso il premio della critica. Quasi paradossale. Lui questo pezzo l’aveva scritto in un momento diverso e quando Amadeus, che ha una cultura musicale vastissima, gli ha chiesto di partecipare, Guglielmo ha mandato il brano e l’hanno accettato. Lui comunque non aveva mai nascosto di volersi mettere alla prova su quel palco, in una canzone l’aveva anche detto».

Tra i primi ascoltatori del brano “Mai dire mai (La Locura)”,  ci sono stati proprio i genitori di Willie. «Da una prima lettura sembra quasi una somma di banalità, di modi di dire, ma non lo sono - sottolinea Oscar -.  Quel testo è molto studiato e solleva problemi che sono sotto gli occhi di tutti, sfidando la mania del politically correct». 

Quali sono le canzoni preferite di mamma e papà? «La mia  è “Che bella giornata”, anche perché è l’unico pezzo in cui mi ha fatto suonare» risponde Oscar. «A me piace Educazione Sabauda, tutto il disco, dall’inizio alla fine - dice invece Michela -. A me piace molto come scrive, lo ammiro tanto. In poche frasi riesce a dire molto, e questo è veramente bello».

«Speriamo possa continuare a fare quello che gli piace, vogliamo vederlo contento, indipendentemente dai risultati che ottiene  - concludono mamma e papà -. A lui non fregava nulla di diventare famoso, avrebbe continuato a fare musica anche per trenta persone. Cosa gli devi dire? Fa la cosa che gli piace di più e la fa nel modo che gli piace di più».

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