''Meglio morire subito ho pensato, piuttosto che agonizzare sepolto. Sono fatalista: se sono vivo, si vede che ho qualcosa ancora da fare. Mi sento fortunato, certo'' ma due persone ''straordinarie, uniche, come Gigliola e Oskar, due leader nazionali del Soccorso alpino, preparati come pochissimi altri, non ci sono più''. Giuseppe, 'Pino' Antonini, 53 anni, è il direttore della Scuola forre e canyon del Corpo nazionale del Soccorso alpino scampato al terremoto del Nepal e alla frana che il 25 aprile ha raso al suolo il villaggio di Langtang. Era in missione insieme a Gigliola Mancinelli, 51 anni, anconetana, anestesista e istruttore medico del Soccorso alpino, e Oskar Piazza, 55 anni, trentino, vice direttore della Scuola forre e tecnico di elisoccorso, entrambi morti. Con loro c'era anche Giovanni, 'Nanni' Pizzorni, torrentista ligure di 52 anni, che a Pino deve la vita, ed ora è ricoverato a Parigi. Antonini è tornato a casa giovedì notte, e in un'intervista all'ANSA ripercorre quelle ore drammatiche. Un racconto lucido, asciutto, un dolore sorvegliato. ''Era la nostra terza spedizione nella zona, dovevano esplorare nuovi canyon. Il 25 saremmo dovuti salire per ridiscendere una forra, ma c'era nebbia, e siamo rimasti nel lodge di pietra e legno dove alloggiavamo''. ''Io e Gigliola eravamo di sopra, guardavamo un film al pc, gli altri due stavano di sotto. E' arrivata la scossa, molto violenta (7.8 di magnitudo ndr), la terra ha tremato per 40-50 secondi: sono crollati i muri perimetrali della casa, dove c'erano anche il proprietario, uno sherpa, la moglie e la figlia''. ''Noi quattro ci siamo chiamati - seguita Pino -, eravamo tutti a posto, nessun problema. Dieci secondi dopo ho sentito un rumore di fondo inquietante: dalla montagna si era staccato un seracco di 200-300 metri di spessore, diversi milioni di metri cubi di sassi e ghiaccio, piombati da 7 mila metri fino ai 3.500 di quota del villaggio. Una valanga nubiforme che in parte ci ha raggiunto, diretta verso di noi alla velocità di 300-400 km all'ora''. La massa ''deve aver abbattuto i pilastri del lodge: mi sono trovato immerso fra le macerie, investito da un turbine di aria, ghiaccio e sassi''. ''30-40 secondi dopo il 'tornado', c'era solo una distesa bianca. Ero rimasto fuori con la testa e un braccio: ho tentato di chiamare Gigliola ma non rispondeva''. Dopo 20 minuti di fatiche Pino si è liberato: ''Gigliola era cinque o sei metri davanti a me, semisepolta. Ho provato ma non c'era più nulla da fare, era morta sul colpo''. Oskar e Giovanni invece erano già quasi fuori dai detriti. ''In quella distesa bianca - ripete - sembrava non ci fosse più neppure un sopravvissuto. Solo gente sepolta e rumori di frane lontane''. A sera, ''dei 400-500 abitanti di Langtang erano rimasti in piedi solo 25 nepalesi''. ''Di noi ero l'unico in piedi - ricorda - ed ero quello che doveva fare qualcosa. Ho cercato delle coperte, degli stracci e ho preparato un bivacco in una stalla, con l'aiuto di un ragazzo francese che aveva appena perso la compagna. Abbiamo portato lì i feriti, insieme ad un portatore: li abbiamo messi sopra dei tappeti, e coperti con sacchi a pelo e teli di plastica. Ho chiesto ad un'anziana di tenere acceso un fuoco. Piazza è apparso subito molto grave, credo per una frattura della base cranica. Pizzorni aveva sospette fratture alla schiena o al bacino''. Il rischio era che cadesse un altro saracco: ''non era prudente restare lì. I feriti non potevamo spostarli, ma ho cercato un altro ricovero per me, il francese e una bambina figlia del portatore. Pochi metri più avanti c'era una casa dove abbiamo trascorso la notte, insieme ad altri superstiti, fra cui molti bimbi piccoli''. ''All'alba - dice Pino - mi sono precipitato alla stalla: Piazza era morto. Ho preparato una barella di emergenza per Pizzorni. In mattinata è arrivato un elicottero dell'esercito nepalese, ma erano abbastanza disorganizzati. Con una lettiga abbiamo alloggiato Pizzorni fra i ruderi di un ospedale 'esploso' con il sisma. Con altri superstiti dell'alta valle abbiamo aspettato tutta la notte''. Il 27 aprile, di mattina, è arrivato un elicottero che ha portato via ''i feriti più gravi, Pizzorni e anche me, che ero piuttosto malconcio''. Antonini ha visto scene ''raccapriccianti, molta tensione, pochi voli, lanci di pietre ed episodi di sciacallaggio per accaparrarsi un posto. Nel pomeriggio ci hanno sbarcato nell'ospedale da campo crollato di Trisuli. Medici non ce n'erano, solo infermieri. Mi hanno suturato dei tagli profondi alla gamba fra il sangue degli altri. Oggi sono andato in ospedale e sono sotto terapia antibiotica''. ''Non avevo più soldi, neppure le scarpe, ne ho trovate un paio fra le macerie''. Una famiglia olandese ''ci ha aiutato a telefonare in Italia e si è offerta di portarci a Katmandu con un fuoristrada. Qui un albergatore svizzero si è preso cura di noi, e abbiamo potuto stabilire i contatti per rientrare in Italia''. ''Con un pilota e degli alpinisti italiani volevo andare a recuperare i corpi di Gigliola e Oskar, ma il volo non è stato autorizzato, e sono stato imbarcato sull'aereo dell'Aeronautica che ci ha portato in Italia''. Le spoglie di Gigliola potrebbero essere rimpatriate lunedì. ''Ai due figli ho portato una catenina ciascuno, quelle che lei aveva al collo''. ''Adesso - conclude Antonini - siamo ancora di più una grande famiglia, anche se fra mille difficoltà''. Lei tornerà in montagna? ''ci vado domani. Per pensare un pò meno e fare di più. E' quello che avrebbero voluto i miei amici''.
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