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05 Gennaio 2021 - 17:37
Fabio Artesi, al centro, con Claudio Martinelli e Costantino Sergi
Ci eravamo conosciuti dieci anni fa. Era aprile 2010, su un incendio alla cascina “Magnolia” di Venaria. “Piacere, sono Fabio Artesi, sono più un fotografo che un giornalista. Lavoro per Zip News”. Solare ma rispettoso del lavoro altrui. Lo avevo capito in pochi minuti a stretto contatto con lui. Erano i miei primi tempi da responsabile di zona a Torino Cronaca e da un annetto ero passato al “Risveglio”, lasciando “spazio” proprio a Fabio sulle colonne de “La Voce”. Poi, i nostri destini si sono incrociati per caso, poco tempo dopo. Nel 2014 avevo fatto ritorno alla Voce e ci siamo divisi il territorio. E’ vero, non lo nego: sembravamo Sandra e Raimondo. Nei primi tempi erano più i “vaffanculo” che i “ciao”.
Poi le cose sono mutate, tra di noi è nata una solida amicizia. Che andava al di là del lavoro. Ci siamo confidati i nostri rispettivi momenti bui della vita, le speranze, le delusioni, le novità del quotidiano. E anche ultimamente, quando le mie collaborazioni sono aumentate e lo stesso le sue. E quando è andato alla “concorrenza” - sempre e solo stata sulla carta (facciamo outing e che nessuno si incazzi, ndr) - alla “Nuova Periferia” non c’era settimana che si prendesse il caffé assieme o che non si andasse assieme sui servizi. “Andiamo a fare le interviste ai commercianti?”. Era questa la domanda “trend” di questi ultimi mesi. Perché a causa del Covid, gli argomenti erano diventati sempre gli stessi. Ma c’era sempre il modo di trovare un qualcosa di diverso da scrivere, per stuzzicare i nostri rispettivi lettori. “No comment”, mi diceva quando una notizia non gli piaceva o quando una persona non si era comportata correttamente con lui. A inizio novembre mi aveva chiamato per andare con lui su una notizia. A me, quella notizia neanche stuzzicava. Ma era il piacere di stare un pò con lui, per sparare “due cazzate” ed evitare di stare in casa, che stava diventando pesante a causa delle restrizioni dettate dall’emergenza Covid. Due giorni dopo, mi chiama e mi dice: “Ho la febbre, non sto bene. Mi mandi due foto tu del mercato che riapre in viale Buridani?”. Pensavo fosse una banale influenza stagionale, dopo tutti i giorni e le sere che aveva passato a immortalare le diverse manifestazioni a Torino contro i Dpcm di Conte. “Ordina tramite Amazon un saturimetro, così mi fai sentire più tranquillo”. E mi aveva ascoltato. Il giorno dopo mi chiama e dice di sentirsi meglio, che la febbre non c’era più. Passa un giorno e mi scrive: “Mi stanno venendo a prendere. Sto saturando malissimo”. Non c’è stato giorno in cui non ci siamo scritti, in cui non mi mandasse una foto dall’ospedale di Cirié. Fino ad una telefonata, in un pomeriggio di novembre. Aveva pochissimo fiato, ma l’avevo tanto apprezzata: “Sono qui, ne ho due palle. Voglio tornare a casa”. Gli avevo fatto coraggio. E ogni giorno gli scrivevo: “Non fare cazzate perché ti vengo a prendere a ceffoni eh”. Non lo nego: avevo paura se ne andasse. Anche perché i segni di miglioramento erano pochissimi. E con il passare dei giorni, i medici hanno poi optato per il casco e poi per intubarlo. Prima con dei cicli di qualche ora. Poi h24. Due giorni prima della morte, la moglie mi aveva scritto su Messenger: “La situazione è stabile, però ci sono lievi miglioramenti”. Il giorno di Natale, attorno alle 10, mi arriva quel maledetto Messenger: “Fabio non c’è più”. L’ho riletto dieci volte prima di urlare e piangere. Prima di cercare conforto negli affetti familiari e poi con i colleghi. Perché per me è la seconda batosta in sette anni: due amici volati in cielo, per malattie beffarde, ancora troppo giovani.
Sarà dura andare avanti, adesso, senza di te. Caro il mio “nano rompipalle”. Mi mancherai tanto.
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