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19 Luglio 2017 - 11:19
Rocco Schirripa
Con la condanna di Rocco Schirripa all’ergastolo è arrivata, a distanza di 34 anni, una verità giudiziaria di primo grado sull’esecutore materiale dell’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia.
Ieri, la Corte d’Assise di Milano, presieduta da Ilio Mannucci Pacini, ha accolto l’impianto accusatorio del pm Marcello Tatangelo che insieme all’aggiunto Ilda Boccassini ha coordinato l’indagine sull’uccisione del magistrato voluta dalla ‘ndrangheta nel giugno del 1983. Schirripa, ex panettiere di 64 anni, sempre presente in aula, era stato arrestato il 22 dicembre 2015 e, stando alle indagini, avrebbe fatto parte del gruppo di fuoco che quella sera a Torino freddò a colpi di pistola il magistrato, all’epoca uscito senza scorta per una passeggiata con il suo cane.
La Procura milanese (competente sui reati commessi contro toghe torinesi) ha ricostruito che l’assassinio sarebbe stato una dimostrazione di “fedeltà” e una “prova di coraggio” data da Schirripa ai boss, in particolare a Domenico Belfiore dell’ omonimo clan, già condannato in via definitiva all’ergastolo come mandante.
Le due figlie del procuratore, Paola e Cristina, hanno definito “giusta” la sentenza ma, secondo loro, sul caso “ci sono ancora tanti aspetti da indagare e pezzi di verità da aggiungere”.
Il legale di parte civile, Fabio Repici, infatti, si è spesso scontrato con la Procura milanese chiedendo a più riprese di indagare anche su una pista che intreccia mafia, clan calabresi e servizi segreti e il riciclaggio di denaro al casinò di Saint Vincent su cui stava indagano Caccia prima di morire.
Dopo il verdetto, il presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi ha sottolineato che “la sentenza è un altro passo importante, dopo molti anni, verso la verità e la giustizia”.
Secondo i pm, a scatenare la reazione della cosca sarebbe stato “l’estremo rigore” del procuratore, che con il suo interessamento verso le “attività finanziarie” dei clan avrebbe impedito loro di fare affari, nonostante la compiacenza di altri magistrati.
Tra le prove nel processo a Schirripa, ripartito da zero alla fine dello scorso anno per un errore procedurale della Procura, una serie di dialoghi registrati con un virus inoculato negli smartphone di Belfiore e altri ‘ndranghetisti, tra cui suo cognato Placido Barresi.
Era diventata inutilizzabile, invece, dopo il vizio di forma, la conversazione avvenuta tra Barresi e Schirripa in cui il primo diceva al panettiere: “Ti sei fatto 30 anni tranquillo, fattene altri 30”.
Anche alla lettura del verdetto erano presenti una ventina di giovani dell’associazione ‘Libera’.
La Corte ha disposto a carico di Schirripa risarcimenti in favore della Regione Piemonte, del Comune di Torino, della Presidenza del Consiglio e del Ministero della Giustizia, con provvisionali dai 50mila ai 300mila euro per i familiari del magistrato.
Schirripa in mattinata aveva ribadito la sua innocenza: “Sono terrone e sono compare di Domenico Belfiore, dunque sono il soggetto perfetto per l’accuse”.
E aveva annunciato uno sciopero della fame in caso di condanna.
“Spero non lo faccia”, ha commentato l’avvocato Basilio Foti, difensore assieme a Mauro Anetrini.
I giudici hanno disposto la trasmissione del fascicolo al pm per “eventuali determinazioni”.
In Procura c’è aperta un’ inchiesta a carico di Francesco D’Onofrio, ex militante di Prima Linea e ritenuto vicino alla ‘ndrangheta, indagato a piede libero come altro esecutore materiale dell’omicidio.
Residente a Torrazza Piemonte e conosciuto dalle autorità giudiziarie fin dagli anni ’70, denunciato più volte per diversi reati, tra cui il gioco d’azzardo, un tentato omicidio, un furto e una rissa.
Nel 2011 Rocco Schirripa viene arrestato nell’ambito dell’operazione Minotauro, in quanto ritenuto affiliato al locale di Moncalieri. Patteggia 20 mesi e esce.
E’ tornato in galera nel dicembre del 2015 su ordine della Procura di Milano. Potrebbe infatti essere uno degli uomini che il 26 giugno del 1983 ammazzò a colpi di pistola l’allora procuratore capo di Torino Bruno Caccia, l’unico magistrato eliminato dalle cosche nel Nord Italia.
Per quell’agguato c’è già una condanna.
Domenico Belfiore, considerato il mandante, sta infatti scontando l’ergastolo dal 1989, anche se nel giugno del 2014 gli è stata concessa la detenzione domiciliare, a Settimo Torinese, per una grave malattia.
Anche lui originario di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), chiamato dagli amici Rocco ‘Barca’, già nel 1996 un pentito aveva ipotizzato il suo coinvolgimento precisando però che si trattava di una propria “deduzione”.
Vatti a fidare dei pentiti…
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