8 agosto 1944, un triste evento che Settimo Torinese continua a ricordare. Perché ciò che accadde settantatré anni or sono, in un caldo giorno d’estate, è parte della storia cittadina. Una storia che non solo non si cancella, ma vive, impressa a caratteri indelebili con il sangue e le lacrime. Quest’anno, per la prima volta dalla fine del secondo conflitto mondiale, le sei vittime dell’8 agosto 1944 saranno commemorate mentre la barbarie dilaga irrefrenabile nel cuore dell’Europa. Da settimane orrende notizie si susseguono a ritmo vertiginoso, senza che ci sia tempo per decantarle e consentire alla ragione di non essere annichilita dalla collera che vive di ovvietà e stereotipi. Famigliole falciate con un pesante automezzo, una donna incinta uccisa a colpi di machete, gli inermi passeggeri di un treno aggrediti con ascia e coltello, un anziano prete sgozzato come agnello sacrificale mentre celebra la Messa, un atto infame tra i più infami... E quel grido di morte, «Allah Akbar», lo stesso che i muezzin cantilenano dai minareti dove vige la legge di Maometto. Gesti orribili e inspiegabili per coloro che non hanno vissuto stagioni di guerra e manifestano scarsa coscienza della pace e del suo valore infinito. In frangenti così agghiaccianti, la violenza islamica ci ricorda chi siamo, richiamandoci alle nostre radici di popoli europei. E ci mette in guardia: occorre un sussulto di responsabilità e di passione morale per rafforzare la convivenza civile e infrangere la strategia dell’odio, come negli anni cupi dell’occupazione nazista. In tale contesto è importante non dimenticare gli episodi di barbarie del passato affinché si possa efficacemente reagire a quelli di oggi. E allora ricordiamo… La mattina di martedì 8 agosto 1944 la guardia municipale Antonio Cattaneo percorreva in bicicletta la strada da Leinì a Settimo. Nella vicina cascina Pramolle risiedeva la famiglia Bosco. Non appena la guardia si avvicinò, un uomo lo avvertì: «Fa’ attenzione perché sta accadendo qualcosa di strano». Nei pressi del ponte sull’autostrada per Milano, alcuni militari tedeschi erano disposti a ventaglio. Sei uomini in borghese, con le mani legate dietro la schiena, attendevano vicino a un autocarro in sosta accanto al casello. Cattaneo riferirà che il più giovane dei sei indossava pantaloni corti e tuta mimetica: a distanza di decenni, la sua testimonianza trova precisi riscontri negli atti ufficiali del Comune di Settimo. La guardia vide che «due o tre tedeschi» erano intenti a preparare una serie di capestri. Comprese allora che i soldati si apprestavano a impiccare gli uomini in borghese. La zona era deserta. Piangendo, il più giovane dei prigionieri cercò di liberarsi, ma i soldati lo malmenarono. Gridava: «Mamma, mamma, sono innocente, non ho fatto nulla!». Le impiccagioni avvennero con un ritmo che a Cattaneo parve lentissimo. L’autocarro partì dal casello dell’autostrada. Sul cassone si trovava un prigioniero con quattro o cinque militari. Una volta sotto il ponte, i soldati gli infilarono un cappio al collo, poi balzano a terra. L’autocarro ripartì, lasciando l’uomo a penzolare nel vuoto, quindi retrocedette sino al casello. La scena si ripeté altre cinque volte. Toccò al ragazzo coi pantaloni corti salire per ultimo sul camion della morte. Alle ore dieci e mezzo o poco più, tutto era concluso. Dopo la guerra, nel marzo 1947, tre delle vittime furono riconosciute dai rispettivi famigliari e trasferite nei paesi di origine. Le tre rimaste ignote riposano dal 1965 nel mausoleo dei caduti partigiani, presso il Cimitero monumentale di Torino. Tutte ci invitano – con le parole di padre Jacques Hamel, trucidato martedì scorso dagli islamici – ad «avere cura di questo mondo, a farne, là dove viviamo, un mondo più caloroso, più umano, più fraterno».
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