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RIVAROLO. A processo la banda della truffa

RIVAROLO. A processo la banda della truffa

Aula di tribunale

Era detta la "banda della truffa". In nove anni aveva collezionato oltre duecento vittime in tutto il nord Italia. Finché non era scattate le manette. Falsificavano assegni per acquistare profumi, elettrodomestici, orologi di marca, gioielli e viaggi, ma soprattutto vetture di grossa cilindrata. Degli oltre venti indagati dell'inchiesta Supercar, cinque sono finiti a processo, ad Ivrea, per una truffa compiuta a Rivarolo nel 2010: Stefania Mesoraca, 27 anni (difesa dall'avvocato Marina Spandre), Francesco Carabetta, 35 anni (avvocato Maria Rosa Barolo), Ippolito Mesoraca, 65 anni (avvocato Mario Benedetto), Gianluca Abate, 30 anni (avvocato Angelo Milito), Sabrina Mesoraca, 25 anni (avvocato Patrizia Mussano). Il processo ha corso, ieri pomeriggio, il rischio di un ennesimo rinvio per l'assenza di un paio di avvocato causa "neve", che il giudice Maria Claudia Colangelo non ha ritenuto, a questo punto (nelle passate udienze l'assenza era dovuta a "motivi personali"), giustificata. I fatti risalgono al 22 giugno di sei anni fa quando Sabrina Mesoraca, insieme a due uomini, presentati come il fratello ed il padre, si presenta presso il negozio di Marzia Oberto Tarena per acquistare due stufe a pellet. "Una bella ragazza, mi ha detto che avrebbe pagato con assegno – ha raccontato la persona offesa, interrogata ieri dal Pubblico Ministero Michela Begognè -. Il padre zoppicava un po'. Il ragazzo aveva sui 25 anni, capelli corti tirati all'indietro col gel. Persone molto simpatiche, calabresi, parevano a modo. Dicevano di gestire una ditta di parmigiano, di oli. Abbiamo un po' chiacchierato. Volevano le stufe in fretta, per una loro casa in Calabria. Non avevano trattato sul pezzo. E poi conoscevano un'altra persona che aveva acquistato da me, siamo entrati subito in sintonia". Tutta una farsa. L'indomani il padre della commerciante, Lino Oberto Tarena, aveva consegnato le stufe a Rivarolo. "Me le hanno fatte scaricare e caricare su un loro furgone, a pensarci ora ho anche tribolato un po'" ha ricordato, anche lui interrogato in aule. La commerciante non ha voluto ritirare la querela: "non mi hanno pagato e ho dato il materiale, per me si va avanti". Elemento a favore della difesa il fatto che non avesse saputo riconoscere le persone attraverso il riconoscimento fotografico, presso la locale stazione dei carabinieri, dove aveva sporto denuncia.
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