Sono tre gli imputati per omicidio colposo. Tre su un totale di cinque persone iscritte, quest’estate, nel registro degli indagati per la morte di Tito Traversa, il dodicenne campione di arrampicata precipitato da un’altezza di 20 metri lo scorso 2 luglio a Orpierre, in Francia, dopo tre giorni di coma passati in ospedale. Secondo il pm Raffaele Guariniello quella caduta sarebbe stata causata dalla negligenza di Luca Giammarco, legale rappresentante della società «B-side», che aveva organizzato l’arrampicata; dall’istruttore Nicola Galizia e da Carlo Paglioli, legale rappresentante della «Aludesigne», azienda produttrice delle attrezzature, che non avrebbero avuto allegate alle confezioni istruzioni adeguate per il corretto utilizzo. “L’unico interesse del padre di Tito è che si restituisca verità al dramma che li ha travolti”, aveva commentato l’avvocato Paolo Chicco, che rappresenta Giovanni Traversa, papà del baby-campione, dalla cui denuncia è scaturita l’inchiesta della magistratura di Torino. “Da troppe parti – aveva aggiunto Chicco – sono stati espressi giudizi improvvisati e disinformati. Abbiamo assoluta fiducia nel lavoro che il procuratore e i suoi esperti stanno svolgendo e siamo certi che riusciranno a fare piena luce su quanto e successo e sulle rispettive responsabilità“. Il magistrato torinese avrebbe deciso di procedere nei confrontei di sole tre persone dopo una lettura attenta della relazione della géndarmerie di Gap in Francia, le cui conclusioni coincidono con quelle dei suoi consulenti. Il titolare dell’azienda produttrice dei gommini, che ha sede in Lombardia, è indagato in quanto nella confezione non erano presenti istruzioni per il montaggio. Il responsabile della società B-Side deve rispondere dell’organizzazione della spedizione a Orpierre, dove era in programma la manifestazione sportiva. L’istruttore sarà chiamato a rendere conto dell’omesso controllo sul corretto montaggio dell’attrezzatura. La ricostruzione In base alle ricostruzioni Tito Traversa, al momento della tragedia, aveva appena concluso la scalata di una parete di 20 metri. Aveva fissato una fune a una decina di moschettoni per intraprendere la discesa, ma otto di questi cedettero facendolo precipitare nel vuoto. Le indagini hanno portato a scoprire che l’attrezzatura, prestatagli da una compagna di squadra, non era stata montata in modo corretto. La fettuccia di sicurezza infatti, anziché ai moschettoni metallici, era ancorata ai soli gommini che servono a evitare che i moschettoni ruotino. Alta Provenza Nell’Alta Provenza l’arrampicata, il cosiddetto free-climbing, è di casa, uno sport che attrae molti appassionati. Il giovane Tito era uno di questi. Era partito da Torino tre giorni prima con il gruppo torinese B-side, del quale faceva parte da tempo. Con i suoi istruttori era andato a Orpierre per partecipare a una gara di arrampicata, una bazzeccola per uno che, a soli 12 anni, aveva già conquistato il titolo sia italiano sia mondiale di arrampicata libera. Quel giorno a Orpierre, però, non utilizzò la sua normale attrezzatura, ma quella prestatagli da una amica. Ed è lì, in quella attrezzatura, che secondo Guariniello vanno cercate le cause e le responsabilità della tragedia. Sull’episodio continua ad indagare anche la procura francese di Gap, competente per circoscrizione. “Mio figlio sapeva quel che faceva. Era un ragazzo in gamba. Purtroppo si è fidato degli altri” aveva commentato il papà Giovanni, nei minuti che seguirono la tragedia. La scorsa settimana, però, si è limitato a sottolineare come la richiesta di rinvio a giudizio sia “un atto dovuto alla memoria di Tito”.
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