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Giudiziaria

Soldi, sangue e Hamas: cosa c’è nell’indagine sull’arresto di Mohammed Hannoun

Intercettazioni, bonifici e tentativi di cancellare le prove: l’inchiesta della procura di Genova smonta la rete delle associazioni “umanitarie” accusate di raccogliere fondi per Hamas. I magistrati: niente giustifica i crimini contro i civili palestinesi dopo il 7 ottobre

Soldi, sangue e Hamas: cosa c’è nell’indagine sull’arresto di Mohammed Hannoun

Soldi, sangue e Hamas: cosa c’è nell’indagine sull’arresto di Mohammed Hannoun

Noi ci sacrifichiamo con i soldi e il tempo, ma loro con il sangue”. È una frase che pesa come un macigno quella intercettata nelle carte dell’inchiesta sui presunti finanziatori di Hamas, una frase che da sola restituisce il senso profondo del lavoro degli inquirenti e il quadro che emerge dalle indagini: dietro la facciata della solidarietà e dell’assistenza umanitaria, secondo magistratura e investigatori, non ci sarebbero state semplici associazioni caritatevoli, ma veri e propri canali di raccolta e smistamento di denaro destinato all’organizzazione terroristica.

Giovanni Melillo

Giovanni Melillo, procuratore nazionale antiterrorismo

Le intercettazioni, le movimentazioni finanziarie e i rapporti ricostruiti dagli investigatori sembrano confermare la tesi accusatoria: le strutture finite sotto la lente della procura non operavano per alleviare le sofferenze della popolazione civile di Gaza, ma per alimentare economicamente Hamas. Un quadro che, tuttavia, viene accompagnato da una precisazione netta e politicamente rilevante contenuta nel comunicato ufficiale firmato dal procuratore nazionale antiterrorismo Giovanni Melillo e dal procuratore di Genova Nicola Piacente. “Questo scenario – scrivono – non può in alcun modo togliere rilievo ai crimini commessi ai danni della popolazione palestinese successivamente al 7 ottobre 2023 nel corso delle operazioni militari intraprese dal governo di Israele, per i quali si attende il giudizio da parte della Corte penale internazionale”. Una distinzione che separa il piano giudiziario dell’inchiesta da quello, drammaticamente attuale, del conflitto e delle sue conseguenze sui civili.

Uno dei passaggi chiave dell’indagine ruota attorno a una conversazione registrata poco più di un anno fa all’interno di un’automobile. A parlare sono Awad Hannoun, fratello del presidente dell’Associazione palestinesi in Italia Mohammed Hannoun, e un altro indagato arrestato nel blitz, Ra’Ed Dawoud, noto come Abu Falastine. Parole che la giudice per le indagini preliminari Silvia Carpanini considera decisive per “riconoscere l’esistenza di un rapporto diretto” tra Hamas e “le sue articolazioni periferiche”.

Il dialogo ruota attorno alla nomina di Yahya Sinwar a capo di Hamas dopo l’uccisione di Ismail Haniyeh. “Va bene… loro senza di noi vanno avanti?” dice Abu Falastine, lasciando intendere che senza la rete di finanziatori all’estero il movimento avrebbe serie difficoltà operative. La replica di Awad Hannoun è ancora più esplicita: “Noi… questo movimento è circolare… la nostra generazione si è sacrificata molto”. Una frase che, letta dagli inquirenti, racconta una consapevolezza piena del ruolo svolto nella macchina dell’organizzazione.

Secondo la procura, gli indagati – con Mohammed Hannoun indicato come figura centrale – avrebbero operato attraverso più strutture: l’associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese fondata a Genova nel 1994, una seconda organizzazione di volontariato creata nel 2003 e l’associazione denominata La Cupola d’Oro. Attraverso queste realtà, scrivono gli inquirenti, “si occupavano della raccolta e dell’invio dei fondi ad esponenti di Hamas”, in particolare a Osama Alisawi, già ministro del governo di fatto di Hamas a Gaza, che avrebbe sollecitato e ricevuto direttamente somme di denaro.

I flussi finanziari ricostruiti parlano di fiumi di denaro, trasferiti tramite bonifici o altre modalità, in alcuni casi “indirettamente mediante operazioni di triangolazione con associazioni con sede in Turchia”. I fondi sarebbero stati destinati a soggetti e realtà operanti “a Gaza, nei territori palestinesi o in Israele”, dichiarate illegali dallo Stato israeliano perché “appartenenti, controllate o comunque collegate” ad Hamas. Nelle carte dell’ordinanza si legge che “pare possibile affermare che almeno il 71% delle uscite” sia stato “destinato ad associazioni o persone comunque riferibili all’organizzazione terroristica”.

Al vertice di questo sistema, per la giudice, c’era “indiscutibilmente” Mohammed Hannoun. Nei suoi confronti viene ravvisato un “concreto e attualissimo pericolo di fuga”, legato a un progetto già avanzato di trasferimento in Turchia. Un piano tutt’altro che astratto: secondo l’ordinanza, Hannoun aveva programmato proprio per oggi una partenza per Istanbul, dove intendeva aprire un ufficio e spostare lì l’attività dell’associazione.

Nel suo telefono cellulare, spiegano gli atti, sarebbero state trovate “numerose immagini che denotano in modo inequivoco quanto meno la condivisione dell’ideologia di Hamas”. Ma non solo. Le intercettazioni raccontano anche il tentativo di cancellare le tracce. In un dialogo con Abu Falastine, Hannoun discute di come “ripulire” i computer. “Io sto pensando anche di rompere il pc dell’ufficio… prendo uno nuovo e ci carico il file ma solo il nuovo file maker e basta, né conti né altre cose né nulla”, dice l’interlocutore. Per il gip, “gli indagati, consapevoli delle indagini in corso e di quanto compromettente potesse essere il materiale archiviato nei diversi dispositivi elettronici, per ripulire i dispositivi stessi nascondevano il materiale presso soggetti meno coinvolti”.

Dalle conversazioni emerge infine anche un sostegno ideologico esplicito alle azioni terroristiche. È il caso di Khalil Abu Delah, legale rappresentante della Cupola d’Oro, anch’egli indagato. Nelle intercettazioni liquida la strada del dialogo come “quella dei traditori” e aggiunge una frase che, per gli investigatori, non lascia spazio a interpretazioni: “Grazie a Dio che è nata Hamas”.

Un’inchiesta che, passo dopo passo, smonta il confine tra beneficenza e militanza, tra solidarietà dichiarata e finanziamento occulto, restituendo l’immagine di una rete organizzata, consapevole e strutturata. E che, mentre accende un faro sui presunti canali di finanziamento del terrorismo, ricorda anche che la giustizia internazionale è chiamata a pronunciarsi su tutte le responsabilità, senza sconti e senza doppi standard.

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