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Cronaca

Mohammad Hannoun arrestato. Siamo così sicuri che sia un "terrorista"?

Accusato di essere il vertice italiano di una rete di finanziamento a Hamas e di voler trasferire le sue attività in Turchia, il presidente dell’Associazione dei palestinesi in Italia finisce in carcere. Ma tra cronaca giudiziaria, contesto internazionale e clima politico, i dubbi restano tutti

Mohammad Hannoun arrestato. Siamo così sicuri che sia un "terrorista"?

Mohammad Hannoun

Raccogliere fondi per sostenere il proprio popolo sotto le bombe non è un reato morale. Anzi, per molti è un dovere che nasce dall’identità, dalla storia familiare, dalla carne viva di una terra che continua a sanguinare. È da questo punto di vista – dichiaratamente schierato, dichiaratamente umano – che va anche letto l’arresto, nell’ambito di un’operazione congiunta Digos e Guardia di Finanza, di Mohammad Hannoun, figura storica della comunità palestinese in Italia, finito in carcere con l’accusa gravissima di essere il “vertice italiano” di una rete di finanziamento a Hamas.

La cronaca, stavolta, è anche una cronaca fatta di carte, righe, virgole e pagine. Per gli inquirenti, Hannoun sarebbe membro del comparto estero di Hamas e al vertice della cellula italiana dell’organizzazione. Un’accusa che, se confermata, lo collocherebbe in un ruolo apicale all’interno di una struttura considerata terroristica dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti.

Ed è qui che entra in scena il primo snodo decisivo dell’ordinanza: il “concreto e attualissimo pericolo di fuga”, su cui la giudice per le indagini preliminari Silvia Carpanini fonda la custodia cautelare in carcere.

Secondo la gip, Mohammad Hannoun stava per trasferirsi definitivamente in Turchia, con l’idea – sempre secondo l’accusa – di spostare lì le sue attività di finanziamento. Non un’intenzione vaga, non un progetto buttato lì. Le intercettazioni, richiamate nel provvedimento, parlerebbero di un piano ormai in fase avanzata, tanto che emergerebbe una partenza per Istanbul fissata per il 27 dicembre, con la famiglia pronta a raggiungerlo a breve. Un quadro che, per il giudice, renderebbe concreto il rischio che l’indagato potesse sottrarsi all’azione della magistratura italiana.

in una manifestazione

C’è poi un secondo pilastro cautelare: il pericolo di inquinamento probatorio. Gli investigatori avrebbero accertato che Hannoun e altri indagati avrebbero “ripetutamente ripulito” i loro dispositivi elettronici, circostanza che nell’ordinanza viene letta come possibile tentativo di cancellare o alterare elementi utili alle indagini.

Fin qui, la versione giudiziaria. Chiara, strutturata, severa. Ma la cronaca, lo sappiamo, non è mai tutta la storia. E soprattutto non vive nel vuoto. Vive dentro un clima. E qui i dubbi non sono un vezzo: sono una necessità professionale.

Mohammad Hannoun vive in Italia da oltre quarant’anni. È noto per essere stato per anni il volto pubblico delle associazioni palestinesi, presidente dell’Associazione dei Palestinesi in Italia, presente in manifestazioni, incontri pubblici, conferenze, dibattiti, anche in sedi istituzionali. Non un uomo nell’ombra, non un fantasma. Un attivista politico, certo. Un militante della causa palestinese, senza dubbio. Ma anche una figura che – almeno sul piano pubblico – ha sempre rivendicato la natura umanitaria della raccolta fondi: aiuti per Gaza, per le famiglie, per gli ospedali, per una popolazione stremata da anni di assedio, bombardamenti e isolamento.

Hannoun ha sempre respinto l’accusa di essere un membro di Hamas, definendosi un attivista per i diritti del popolo palestinese. Posizioni discutibili, controverse, spesso radicali, che gli sono valse polemiche e attenzioni da parte delle autorità, ma che fino ad oggi si erano sempre collocate nell’alveo dell’attivismo politico e associativo, non in quello di una struttura clandestina.

Ed è su questo crinale che si scivola nel terreno più scivoloso di tutti: quello in cui la solidarietà viene letta come sospetto.

È davvero plausibile che ogni euro raccolto per Gaza sia, per definizione, un euro destinato a un’organizzazione armata? È credibile che chi nasce palestinese, chi ha parenti sotto le macerie, chi vive l’assedio come un fatto personale e non televisivo, non possa raccogliere fondi senza essere automaticamente sospettato di complicità terroristica? E soprattutto: dove finisce l’attivismo politico e dove inizia il reato penale, quando si parla di un conflitto che non è mai stato solo militare ma profondamente politico e umanitario?

Qui entra in scena la parola che nell’ordinanza pesa più di tutte: Turchia. L’accusa la presenta come destinazione di fuga, come prova del “pericolo attualissimo”. Ma la domanda, per chi conosce anche solo superficialmente le dinamiche della diaspora palestinese, è inevitabile: trasferirsi a Istanbul è davvero di per sé un indizio di latitanza o può essere una scelta organizzativa, politica, familiare? La Turchia è da anni un crocevia di realtà palestinesi, ONG, associazioni, organismi umanitari, un punto di riferimento per una parte significativa del mondo arabo e mediorientale. Eppure, oggi, dire “Turchia” in un’inchiesta antiterrorismo suona già come una condanna implicita. Il rischio è evidente: che un luogo diventi automaticamente una prova.

Stesso discorso per i dispositivi “ripuliti”. È un elemento che, letto in un fascicolo giudiziario, appare gravissimo. Ma anche qui le domande sono inevitabili: cosa significa esattamente “ripulire”? Cancellare chat? Cambiare telefono? Proteggere contatti sensibili? E perché farlo? Per occultare reati o per timore – magari esagerato, magari ingenuo – di essere monitorati e strumentalizzati in un clima in cui chi sostiene la Palestina viene spesso trattato come un problema di ordine pubblico prima ancora che come un cittadino che esercita diritti politici?

Il punto non è negare l’ipotesi investigativa. Il punto è non trasformarla in un automatismo, senza distinguere tra contesto, intenzioni e responsabilità individuali.

Poi c’è l’elemento che inquieta più di tutti: il tempismo. Dopo il 7 ottobre, dopo l’inasprimento del conflitto, dopo mesi di piazze piene di bandiere palestinesi, dopo la crescente pressione internazionale su chiunque provi a distinguere tra terrorismo e resistenza, tra aiuto umanitario e violenza armata, è davvero solo un caso che un volto simbolico della comunità palestinese venga descritto come il “vertice” di una cellula? O stiamo assistendo anche a un messaggio politico, consapevole o meno: attenzione, perché la solidarietà può costarvi carissimo?

Non si tratta di assolvere nessuno per principio. Le indagini facciano il loro corso, i processi stabiliscano responsabilità personali, non collettive. Ma è doveroso ricordare che la presunzione di innocenza vale anche per chi difende cause scomode, anche per chi non si allinea alla narrazione dominante, anche per chi osa dire che Gaza non è solo un “problema di sicurezza”, ma un’enorme tragedia umana.

Raccogliere fondi per la Palestina, per molti palestinesi, non è un’opzione ideologica: è una forma di sopravvivenza collettiva. Mettere tutto questo sotto la lente esclusiva dell’antiterrorismo rischia di cancellare il contesto, la storia, le responsabilità ben più grandi di chi, da decenni, permette che una popolazione viva senza diritti, senza Stato, senza futuro.

Mohammad Hannoun oggi è in carcere. Le accuse sono pesanti. L’ordinanza parla di fuga, di Istanbul, di famiglia pronta a seguirlo, di dispositivi ripuliti. Ma le domande restano, e sono altrettanto pesanti: stiamo davvero guardando un’inchiesta che colpisce un finanziamento illecito, o stiamo osservando un meccanismo più grande che tende a far coincidere la solidarietà palestinese con l’area del sospetto?

Insomma. Prima delle sentenze, prima dei titoli definitivi, prima delle etichette comode, vale la pena fermarsi un attimo. E chiedersi se stiamo davvero perseguendo un crimine, o se stiamo semplicemente punendo una causa.

Cn

Con Alessandro Di Battista

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Con Laura Boldrini

Chi è Mohammad Hannoun

Finanziatore del terrorismo di Hamas o attivista umanitario per la gente di Gaza? O magari tutte e due le cose insieme? Chi è davvero Mohamed Hannoun lo stabiliranno i magistrati genovesi, ma intanto si possono ricostruire azioni e parole di questo palestinese con passaporto giordano, nato nel 1962 in Cisgiordania e arrivato in Italia negli Ottanta per studiare architettura. Nel nostro paese si è effettivamente laureato ed ha deciso di rimancerci. Sposato con figli, vive in un paese dell'entroterra di Genova, Ceranesi.

Al lavoro di architetto ha sempre affiancato l'attivismo a favore del suo popolo. Nel 1994 ha fondato a Genova l'Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese (A.b.s.p.p.), insieme con Osama Alisawi. Quest'ultimo, anche lui colpito dalla misura cautelare della procura di Genova, è un ingegnere che sarebbe poi diventato ministro dei Trasporti del governo di Hamas a Gaza. Scopo ufficiale dell'associazione, con sedi anche a Milano e Roma, è inviare aiuti alle martoriate popolazioni dei territori palestinesi. "I giornali corrotti ci accusano di essere finanziatori dei terroristi - ha dichiarato tante volte Hannoun -, ma non abbiamo mai finanziato un movimento di resistenza, solo progetti umanitari".

Già nel 2003 la procura di Genova aveva aperto un'inchiesta sull'architetto. L'accusa era di mantenere economicamente gli orfani dei combattenti di Hamas uccisi. I pm (fra i quali Nicola Piacente, ora procuratore capo a Genova) nel 2004 avevano chiesto l'arresto di Hannoun. Il giudice non l'aveva concesso, ritenendo che aiutare gli orfani non fosse sostegno al terrorismo. L'inchiesta era stata archiviata nel 2010, anche a causa delle mancate risposte alle rogatorie internazionali.

Hannoun nel frattempo è diventato presidente dell'Associazione palestinesi in Italia (Api). Dopo il 7 ottobre del 2023, ha partecipato in tutta Italia alle manifestazioni del movimento Pro Pal e ha sostenuto attivamente la Sumud Flotilla. Nel 2023, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha inserito l'attivista e la sua A.b.s.p.p. nella black list dei finanziatori del terrorismo. A novembre del 2024, l'architetto è stato colpito da un foglio di via della Questura di Milano, per istigazione all'odio e alla violenza: in un comizio, aveva elogiato i giovani che ad Amsterdam avevano aggredito i tifosi israeliani del Maccabi.

E ad ottobre di quest'anno ha ricevuto un secondo foglio di via da Milano, per aver giustificato le uccisioni da parte di Hamas di presunti collaborazionisti: ""Chi uccide va ucciso - aveva detto -. Perché piangere per questi criminali?".

"E' una bufala che io sia un leader di Hamas - aveva spiegato Hannoun nell'agosto scorso -. Sono semplicemente un palestinese impegnato da decenni nella lotta per i diritti del suo popolo. Hamas ha avuto più del 70% dei voti a Gaza e in Cisgiordania, quindi è un legittimo rappresentante del popolo palestinese. E io sono simpatizzante di Hamas come lo sono di ogni fazione che lotta per i miei diritti".

La pensano diversamente gli inquirenti genovesi, per i quali è "membro" all'estero di Hamas e "vertice della cellula italiana".

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