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Cronaca
23 Dicembre 2025 - 13:30
All’ingresso della cancelleria del Tribunale di Tempio Pausania, ieri mattina, c’era un fascicolo spesso: 72 pagine. Dentro, i giudici spiegano perché quell’alba d’estate tra il 16 e il 17 luglio 2019, in Costa Smeralda, non fu un gioco né una zona grigia, ma una violenza sessuale di gruppo consumata approfittando dell’inferiorità fisica della giovane italo-norvegese. Parole nette che chiudono il primo atto di uno dei processi più esposti mediaticamente degli ultimi anni e aprono il secondo: l’appello annunciato dalle difese. Nella stessa città, davanti allo stesso mare, ora restano le carte. E dicono perché quattro ragazzi, allora poco più che ventenni, sono stati condannati.
La sera della sentenza di primo grado, pronunciata dopo circa tre ore di camera di consiglio, il collegio ha fissato le pene: 8 anni di reclusione per Ciro Grillo, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria; 6 anni e 6 mesi per Francesco Corsiglia. Secondo il Tribunale, presieduto da Marco Contu con Marcella Pinna e Alessandro Cossu a latere, nella villetta di proprietà della famiglia Grillo a Porto Cervo quella notte si consumò una violenza di gruppo. Le condanne non sono definitive e le difese hanno annunciato ricorso, ma il verdetto pesa e segna una linea chiara.
A tre mesi dalla lettura del dispositivo sono arrivate le motivazioni. I giudici definiscono la vittima credibile e soprattutto impossibilitata a reagire a causa dell’assunzione di alcol. Parlano di particolare brutalità e di un contesto predatorio e prevaricatorio, nel quale la fragilità fisica della giovane non fu in alcun modo considerata. È qui che si delinea il perimetro della responsabilità penale: non il superamento di un rifiuto ambiguo, ma lo sfruttamento consapevole di una condizione di inferiorità fisica indotta dal consumo di superalcolici.
La ricostruzione della notte dei fatti è uno dei capitoli più analizzati del processo. Dalle carte emerge un dopo-serata in Costa Smeralda: prima un locale, poi lo spostamento nella villetta. Più volte viene richiamato un “beverone” a base di vodka che, secondo i giudici, avrebbe determinato nella giovane uno stato di inferiorità fisica tale da comprometterne la capacità di opporre un rifiuto efficace. La linea difensiva, fondata sulla consensualità dei rapporti e sulla presunta tenuta psicofisica della ragazza, non convince il collegio. La persona offesa ha reso un racconto immutato nel nucleo essenziale, scrivono i giudici; al contrario, gli imputati avrebbero adattato le loro versioni al progredire delle indagini e all’emergere delle evidenze.
L’attendibilità della vittima diventa l’architrave dell’intera sentenza. È definita pienamente riscontrata alla luce degli elementi emersi nel dibattimento: il tempo trascorso e i vuoti di memoria non intaccano la coerenza del nucleo centrale del racconto. Sul fronte opposto, la difesa aveva provato a smontare il tema dell’alcol anche con consulenze tecniche, sostenendo che, alle quantità riferite, la ragazza avrebbe dovuto trovarsi in uno stato di quasi coma etilico, incompatibile con alcuni comportamenti visibili in video. Ma il Tribunale rovescia la lettura: non incapacità totale, bensì minorata difesa, un indebolimento concreto della capacità di scegliere e resistere.
La sentenza entra poi nel merito delle responsabilità individuali. La posizione di Francesco Corsiglia viene valutata separatamente per alcuni capi d’imputazione: condanna per violenza sessuale di gruppo, assoluzione per un episodio in cui non era presente con la principale accusatrice. Diverso il quadro per Grillo, Capitta e Lauria, ritenuti responsabili — nel concorso — della violenza di gruppo e di ulteriori condotte. L’impianto complessivo restituisce una dinamica in cui il gruppo è decisivo: azioni che si susseguono, si rafforzano e si sostengono a vicenda. I giudici parlano di “brutalità del gruppo, coeso fin da principio”.
Accanto alle pene principali, il Tribunale ha riconosciuto provvisionali alle parti civili: 10.000 euro nei confronti di Grillo, Capitta e Lauria, 5.000 euro per Corsiglia. La quantificazione definitiva dei danni sarà stabilita in sede civile. Il giorno della sentenza, in aula, la reazione della parte offesa — assistita dall’avvocata Giulia Bongiorno — è stata definita dalla legale come “lacrime di gioia”.
Le difese, fin dalla lettura del dispositivo, hanno parlato di verdetto “ingiusto” e “deludente”, annunciando l’appello. Tra gli avvocati impegnati nel procedimento figurano Enrico Grillo, Andrea Vernazza, Alessandro Vaccaro, Antonella Cuccureddu, Gennaro Velle e Mariano Mameli. La linea resta quella della non colpevolezza, con nuove critiche alla valutazione dell’attendibilità della vittima e al peso attribuito all’alcol. Di segno opposto la posizione del procuratore capo Gregorio Capasso, per il quale la chiave è esattamente inversa: imputati inattendibili, vittima coerente. In requisitoria aveva chiesto 9 anni per tutti. Ora, con le motivazioni depositate, decorrono i termini per impugnare.
Una parola giuridica attraversa tutta la sentenza: inferiorità fisica. Nel lessico penale indica la condizione in cui la persona offesa, pur non priva di coscienza, vede drasticamente ridotta la capacità di autodeterminarsi, di respingere un atto, di chiedere aiuto. Può derivare da alcol, droghe o stordimento e, se sfruttata, integra la violenza. Per i giudici di Tempio Pausania, quella notte la fragilità della giovane era evidente e ignorata. Il consenso, spiegano, non è una formula astratta: deve essere libero, informato e revocabile. Se lo stato psicofisico è alterato, quel consenso non esiste.
Dopo tre anni di dibattimento, udienze protette, confronti tecnici su metabolismo dell’alcol, analisi di tracce digitali e una narrazione pubblica spesso aspra, la sentenza prova a separare il rumore dai fatti giuridicamente rilevanti. È una condanna di primo grado, e vale la presunzione di innocenza fino al giudizio definitivo. Ma le motivazioni raccontano già come il Tribunale ha letto quella notte: non ambiguità, bensì una sequenza di condotte in cui iniziativa, persistenza e coesione del gruppo hanno annullato la capacità di difesa della ragazza.
Con il deposito delle 72 pagine, le difese hanno ora pieno accesso al testo per costruire i motivi d’appello. L’impugnazione potrebbe approdare in aula nel 2026, ma i tempi dipenderanno dal carico della corte territoriale. Al di là delle strategie processuali, queste motivazioni parlano anche fuori dall’aula: fissano un confine netto sul tema del consenso e dell’alcol. L’alterazione non attenua la responsabilità di chi approfitta; la disinibizione non cancella il diritto all’integrità e alla libertà sessuale.
Resta ora il secondo grado. Stesso fascicolo, giudici diversi. E una domanda che accompagnerà l’appello: se quella notte sia stata davvero, come sostengono le difese, una zona grigia, o — come scrivono i giudici di Tempio Pausania — una violenza di gruppo consumata sfruttando una condizione di inferiorità fisica. Il resto lo diranno le sentenze che verranno.
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