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Cronaca
18 Dicembre 2025 - 18:05
Giada Zanola
E' lì, penitenziario di Rovigo, durante l’ora d’aria, che secondo il racconto di un detenuto Andrea Favero avrebbe pronunciato una frase che oggi pesa come un macigno: l’ho fatta fuori. Da quel sussurro nasce una deposizione che entra negli atti e cambia la traiettoria del processo per la morte di Giada Zanola, precipitata dal cavalcavia dell’A4 nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2024, una morte che all’inizio era stata archiviata come suicidio e che la Procura di Padova descrive invece come l’esito di una messinscena lucida e pianificata: sedare, stordire, trasportare, gettare.
A parlare è un detenuto di 69 anni, già condannato per altri reati, che riferisce ai magistrati di confidenze ripetute ricevute da Favero, ex compagno di Giada Zanola e oggi imputato per omicidio volontario aggravato. Secondo il testimone, Favero avrebbe raccontato una sequenza precisa, scandita dall’uso di psicofarmaci, dal trasporto in auto e dalla spinta oltre la ringhiera del ponte. Non un racconto estemporaneo, ma una versione formalizzata in una deposizione messa a verbale dall’allora sostituto procuratore Giorgio Falcone e ribadita davanti alla Corte d’Assise di Padova in videocollegamento. Una testimonianza che si incastra con un’altra frase attribuita all’imputato, ripetuta come uno schermo difensivo anche dopo i fatti, Giada si è suicidata, una linea che contrasta con la ricostruzione accusatoria e con gli esiti medico-legali.
La scienza entra nel fascicolo già nei giorni immediatamente successivi alla tragedia. Gli accertamenti tossicologici rilevano nel corpo di Giada Zanola tracce compatibili con benzodiazepine, farmaci noti per indurre sonnolenza e ridurre i riflessi. Un dato che, insieme al quadro lesivo, spinge gli inquirenti a ritenere che la donna fosse stata resa inerte prima della caduta. L’autopsia conclude che Giada era con ogni probabilità ancora viva quando venne lanciata oltre la ringhiera, senza segni di strangolamento o ferite da arma, ma vittima di un volo di circa 15 metri e del successivo investimento da parte di un mezzo in transito. Un punto cruciale perché smonta l’ipotesi del gesto autolesivo e rafforza quella di una sedazione funzionale all’annullamento della resistenza. Anche alcuni messaggi inviati da Giada ad amiche nei giorni precedenti raccontano il timore di essere stata “addormentata” contro la propria volontà.
Per la Procura, la costruzione del suicidio passa anche da una sequenza di azioni compiute dopo la morte. A Favero viene contestato l’invio di una telefonata e di un sms al cellulare di Giada la mattina successiva, quando lei era già morta, con un tono di apparente quotidianità e rimprovero, Sei andata al lavoro? Non ci hai nemmeno salutato!!, un tentativo, secondo gli inquirenti, di fissare agli atti una normalità artificiale. In parallelo, il telefono della vittima sparisce: non è in casa, non è nell’auto, non è nei pressi del ponte. Un’assenza che resta una delle lacune più pesanti nella ricostruzione di quelle ore.
Nelle fasi iniziali dell’indagine, Andrea Favero avrebbe reso alcune ammissioni parziali, poi ritrattate, descrivendo la posizione della coppia sul ponte e il gesto di sollevarla oltre la ringhiera. Davanti al Gip e successivamente in carcere, l’imputato sceglie il silenzio e parla di un “vuoto di memoria”. La custodia cautelare viene confermata per la presenza di indizi gravi, precisi e concordanti, anche se il fermo non viene convalidato per assenza di pericolo di fuga.
Con la chiusura delle indagini preliminari del 24 marzo 2025, l’impianto accusatorio si cristallizza: omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e dalla relazione affettiva e di convivenza, con l’ulteriore accusa di aver simulato un suicidio. Al centro resta l’ipotesi che Favero abbia somministrato a Giada Zanola psicofarmaci per tramortirla e poi l’abbia gettata dal cavalcavia, a poche centinaia di metri dalla casa in cui vivevano con il figlio. In questo quadro entra la voce del compagno di cella, che per la difesa dovrà essere vagliata sul piano della credibilità e per l’accusa dialoga con elementi già acquisiti come farmaci, autopsia e messaggi.
Il processo si apre a Padova il 23 settembre 2025, con un calendario che si estende tra la fine del 2025 e il primo trimestre 2026. Davanti alla Corte d’Assise sfilano gli investigatori della Polizia stradale e della Squadra mobile, oltre a testimoni come il farmacista che avrebbe venduto a Favero il farmaco rinvenuto, secondo l’accusa, nel corpo di Giada. Entrano nel dibattimento anche familiari e conoscenti della vittima, chiamati a raccontare dinamiche e timori degli ultimi mesi. La sentenza è attesa in primavera. L’udienza del 18 dicembre 2025 segna un passaggio delicato con la deposizione del detenuto-testimone, portando in aula il tema sempre controverso delle confidenze carcerarie.
Secondo quanto riferito, il testimone avrebbe sentito parlare di cose per dormire somministrate a Giada, di un trasporto in auto e del getto dal ponte, una dinamica coerente, per l’accusa, con l’assenza di segni di colluttazione e con la necessità di una vittima priva di forze per superare una ringhiera alta circa due metri. Nel racconto emergerebbe anche uno sfondo di rancore e gelosia, fatto di accuse di tradimento già presenti negli atti come cornice di una relazione in crisi.
Restano però nodi aperti che la Corte dovrà sciogliere, a partire dalla scomparsa del cellulare di Giada Zanola, potenziale archivio di chat, localizzazioni e contatti decisivi, e dalla precisa modalità di somministrazione dei farmaci, tra dosaggi, tempi e tracciabilità degli acquisti. Centrale sarà anche la valutazione della credibilità del compagno di cella, che dovrà trovare o meno riscontri esterni nei dati oggettivi come autopsia, tossicologia, tabulati telefonici e perizie.
All’inizio, la pista del suicidio aveva retto. Poi le contraddizioni nelle dichiarazioni, i lividi, gli elementi di contesto e la presunta regia della messinscena hanno portato al fermo per omicidio. Oggi Favero è imputato, si proclama innocente e continua a sostenere di non ricordare con esattezza. A fare da sfondo c’è la decisione del Gip, che mantiene l’uomo in carcere per la gravità del quadro indiziario.
Il cavalcavia di Vigonza, a circa un chilometro dall’abitazione della coppia, diventa così il perno geografico di una vicenda che si consuma tra quotidianità e violenza. Secondo l’accusa, la lite nasce in casa, prosegue in giardino e si conclude sul ponte. Alcune auto evitano il corpo, poi il passaggio di un camion rende definitivo l’esito. Un contesto che, per gli inquirenti, rende plausibile l’uso di sedativi per annullare ogni resistenza.
Nel processo entrano anche le parole dei familiari di Giada, a partire dal padre, che chiede giustizia senza clamore. La comunità si stringe attorno al ricordo di una giovane madre, mentre il caso diventa il paradigma di come un presunto suicidio possa nascondere un omicidio costruito e di come le parole inviate a un telefono spento possano valere più di un alibi. Ora la verità è affidata alla giustizia, chiamata a stabilire se l’ipotesi di premeditazione e somministrazione di psicofarmaci regga oltre ogni ragionevole dubbio e se Andrea Favero sia penalmente responsabile della morte di Giada Zanola.
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