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Cronaca
07 Dicembre 2025 - 12:26
Il caso Shahin spacca Torino: il blitz notturno di Ultima Generazione riaccende la battaglia
Una catena, un cartello, una statua trasformata nella notte in un megafono politico. A piazza Cavour, a Torino, alcuni attivisti di Ultima Generazione hanno legato al monumento di Carlo di Robilant un cartello con la scritta: «Deportato, Mohamed Shahin libero». Un gesto simbolico, l’ennesimo in una vicenda che da settimane agita la città e che nelle prossime ore tornerà in piazza con un presidio organizzato da “Torino per Gaza” e da una rete di associazioni che chiedono la liberazione dell’imam di San Salvario. L’azione notturna si inserisce così in un conflitto sempre più ampio, dove dissenso politico, sicurezza nazionale e diritto d’asilo si sovrappongono fino a diventare terreno di scontro frontale.
Gli attivisti hanno rivendicato l’iniziativa nelle prime ore del mattino. Secondo la loro ricostruzione, il messaggio legato alla statua voleva denunciare quella che definiscono una “detenzione amministrativa ingiusta”, ovvero l’espulsione di Mohamed Shahin e il suo trattenimento nel Cpr di Caltanissetta. In un comunicato, Ultima Generazione sostiene che l’imam sarebbe stato espulso «per aver esercitato un diritto democratico», richiamando le frasi da lui pronunciate in piazza Castello il 7 ottobre. Poi la provocazione: se quelle opinioni sono sufficienti a generare un provvedimento di rimpatrio, «allora aspettiamo anche l’espulsione delle centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato per motivi analoghi». Una frase che mostra chiaramente il taglio politico del blitz e che anticipa la manifestazione convocata in centro città.
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Ma chi è Shahin, e perché il suo caso divide così profondamente Torino? Da oltre dieci anni guida la moschea di San Salvario e, fino allo scorso mese, era conosciuto soprattutto all’interno della comunità islamica locale. Il nome è esploso nel dibattito pubblico dopo le dichiarazioni pronunciate in piazza Castello: «Sono d’accordo con quanto successo» e «Non fu violenza». Parole che, alla luce della situazione internazionale, hanno portato alla firma di un decreto di espulsione e al suo immediato trasferimento nel Cpr. La difesa dell’imam, però, ribalta la prospettiva: sostiene che Shahin sia un oppositore del regime di Al-Sisi e che, in caso di rimpatrio in Egitto, rischierebbe la vita. Per questo è stata presentata una domanda di asilo politico.
Attorno alla sua figura si è formato un fronte trasversale: musulmani, cattolici, valdesi, attivisti e intellettuali. Tra i firmatari dell’appello per la sua liberazione c’è anche il vescovo di Pinerolo, Derio Olivero. Nelle ultime ore i garanti dei detenuti hanno scritto direttamente al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, chiedendo attenzione sul caso.
Ultima Generazione, nella lettera inviata ai consiglieri regionali prima del blitz, ha richiamato l’articolo 10 della Costituzione, che tutela il diritto d’asilo. Nella nota, gli attivisti scrivono che «il vero pericolo non è per la sicurezza del Paese, ma l’esistenza di persone che si stanno spendendo e sacrificando in vari modi per la resistenza del popolo palestinese». A loro avviso, il governo avrebbe colpito Shahin «perché è un bersaglio più facile, non avendo la cittadinanza italiana». Poi la domanda volutamente provocatoria: «Se oggi colpiscono Shahin per aver espresso un giudizio, a chi toccherà domani?».
Il caso, nel frattempo, si allarga. La frattura politica attraversa la città e coinvolge gli spazi più sensibili della democrazia: da una parte la richiesta di garantire ordine pubblico, dall’altra la rivendicazione della libertà di parola e del diritto alla protezione umanitaria. Le parole dell’imam vengono lette da alcuni come un rischio per la sicurezza, da altri come espressione di un dissenso politico che non dovrebbe costare la perdita della libertà.
Le prossime ore saranno decisive. Restano tre punti aperti: la valutazione della domanda di asilo, il destino del decreto di espulsione e la posizione ufficiale che il Comune e il Consiglio decideranno di assumere. Ma la vicenda è ormai diventata un test nazionale: fino a dove può spingersi lo Stato nel limitare l’espressione pubblica? E dove inizia il confine oltre il quale un’opinione diventa una minaccia?
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