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Cronaca
05 Dicembre 2025 - 18:38
Aggredita con l’acido nel suo salone, ma per il giudice non fu tentato sfregio (foto di repertorio)
L’aggressione risale al 28 dicembre dello scorso anno, ma la ricostruzione inserita nelle motivazioni della sentenza restituisce un quadro ancora più inquietante. L’uomo, un 64enne, aveva raggiunto l’ex compagna nel suo salone da parrucchiera e le aveva rovesciato addosso due flaconi di acido muriatico, colpendola su capelli, collo e viso. Un gesto brutale, studiato nei giorni precedenti attraverso una sequenza di messaggi che il giudice definisce chiaramente minacciosi, fra cui l’avvertimento «quegli occhi potrebbero non vedere più», la frase «l’acido brucia bene» e l’ennesimo intimidatorio «d’ora in poi guardati le spalle!».
Eppure, secondo il gup Mauro D’Urso, quel gesto non rientra nei confini giuridici del tentativo di deformazione o sfregio permanente del viso. Una scelta che non riduce affatto, precisa il magistrato, la gravità dell’azione, ma che deriva da un’analisi tecnica riportata nelle motivazioni della sentenza depositate dopo il verdetto del 12 novembre.
Il giudice ricostruisce infatti un elemento determinante: l’acido utilizzato — contenente acido cloridrico al 6,5% — era «inidoneo» a provocare un danno permanente “in concreto”, poiché il locale in cui è avvenuta l’aggressione permetteva un risciacquo immediato della pelle. E quel gesto rapidissimo, compiuto nell’immediata concitazione, avrebbe impedito il processo di cristallizzazione della lesione, che richiede circa 15 minuti per produrre effetti irreversibili.
La donna, infatti, pur essendo stata colpita sul volto e sul collo, non ha riportato danni cicatriziali, come sottolinea il gup: «sebbene attinta dal liquido sui capelli, sul collo e sul viso, anche grazie all'immediato abbondante risciacquo (…) non ha riportato danni cicatriziali o profondi sull'epidermide».
Da qui la scelta di un diverso inquadramento giuridico. Nelle motivazioni, D’Urso colloca l’episodio «al di fuori dei confini» del tentativo di sfregio permanente. Una conclusione che non assolve l’imputato, ma che porta alla riqualificazione dei capi d’accusa: non più tentata deformazione dell’aspetto, bensì tentate lesioni gravissime, e non più stalking, ma minacce.
La pena rimane però identica a quella chiesta dalla Procura: tre anni di reclusione. Una condanna che il giudice definisce coerente con «la gravità della condotta delittuosa», nonostante la diversa qualificazione del fatto.
Restano le parole pronunciate nei giorni precedenti, una scia di violenza verbale che racconta la progressiva escalation verso l’aggressione: «l’acido brucia bene», «per te è finita», messaggi che delineano il clima di terrore vissuto dalla vittima e che, all’interno delle motivazioni, assumono un peso determinante per comprendere l’intero episodio.
La sentenza, nelle sue pagine, non attenua nulla. Si limita a chiarire — con precisione tecnica — perché quel gesto, pur terribile, non potesse produrre lo sfregio che l’uomo aveva evocato nelle sue minacce. Un chiarimento che rende il quadro ancora più nitido: a evitare un danno irreparabile è stato solo il risciacquo immediato, non certo la volontà dell’aggressore.

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