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Cronaca

Il gioielliere che sparò ai rapinatori torna in aula e ribalta l’accusa: “Ho agito per proteggere la mia famiglia”

Nel processo d’appello Roggero racconta la rapina, la paura, gli spari in strada e la vita segnata dal terrore

Il gioielliere che sparò

Il gioielliere che sparò ai rapinatori torna in aula e ribalta l’accusa: “Ho agito per proteggere la mia famiglia”

Il processo d’appello che vede imputato Mario Roggero, il gioielliere di Grinzane Cavour che nel 2021 uccise due rapinatori e ferì un terzo, non è solo una disputa giudiziaria. È un crocevia drammatico di paura, reazioni istintive e responsabilità penali che, a distanza di anni, continua a dividere l’opinione pubblica e a interrogare i giudici. In primo grado, il Tribunale di Asti lo aveva condannato a 17 anni ritenendo che gli spari esplosi all’esterno della gioielleria – dopo un breve inseguimento – non rientrassero nella legittima difesa. Ora Roggero, 71 anni, prova a riscrivere la sequenza dei fatti spiegando perché, quella sera del 28 aprile 2021, imbracciò la pistola di ordinanza e fece fuoco.

Davanti ai giudici torinesi, l’uomo ha scandito parole che riflettono un’ossessione che, racconta, lo accompagna da anni: proteggere la moglie. «Ho agito per legittima difesa, volevo salvare mia moglie e scongiurare il rischio che tornassero a ucciderci», ha dichiarato, sottolineando che l’idea di un possibile ritorno dei rapinatori lo terrorizzava. «Ho solo voluto proteggere la mia famiglia».

La rapina avvenne in pochi istanti ma lasciò dietro di sé una scia di violenza: Giuseppe Mazzarino e Andrea Spinelli entrarono nel negozio armati, il primo con un coltello, il secondo con una pistola che solo più tardi si sarebbe rivelata giocattolo. Ne nacque una colluttazione brutale. Roggero ha ricordato il momento in cui, durante la lotta, i due persero la mascherina anti-Covid mostrando il volto. Un dettaglio che, secondo la sua ricostruzione, cambiò tutto. «Li avevamo visti in faccia e questo ci ha spaventati tremendamente», ha spiegato. «Leggevo nei loro volti una profonda collera oltre alla consapevolezza, a quel punto, di poter essere identificati».

La sua testimonianza però non coincide del tutto con le immagini delle telecamere del negozio, già analizzate in primo grado, che secondo l’accusa mostrerebbero una dinamica diversa, soprattutto nel momento in cui Roggero uscì dal locale e aprì il fuoco all’esterno. L’uomo respinge la lettura della Procura e insiste su un punto: non voleva uccidere. «Ho sparato un colpo alla portiera anteriore sinistra per spaventarli, temendo di colpire mia moglie: mai e poi mai avrei sparato ad altezza d’uomo», ha detto, ricostruendo il primo colpo esploso verso l’auto della banda. Nei suoi ricordi c’è poi il momento in cui Spinelli gli avrebbe puntato contro la pistola. «Ho esploso il colpo per salvarmi la vita, pensavo ci fossimo sparati contemporaneamente», ha affermato, sostenendo di non sapere se gli altri due fossero armati.

Ma il processo non si limita a una ricostruzione tecnica. Ai giudici Roggero ha raccontato anche la fragilità che si porta dietro da anni, quella che risale alla rapina subita nel 2015. Una violenza profonda, non solo fisica. Il ricordo del risarcimento mai arrivato – «per due volte 50 euro in cinque anni» – diventa per lui un segno dell’impotenza di fronte a un sistema che, a suo dire, non tutela davvero chi subisce un reato. «La mia vita e quella della mia famiglia non sono state più le stesse», ha dichiarato. «Continuiamo a vivere nella paura, ogni sconosciuto che entra in negozio ci ricorda quei momenti di terrore».

Ed è qui che si gioca il cuore della vicenda giudiziaria. Cosa succede quando la percezione della minaccia supera l’oggettività dei fatti? Quando la paura diventa una lente deformante? I giudici dovranno stabilire se Roggero abbia agito spinto dall’istinto di sopravvivenza o se abbia superato quel limite sottile che separa la difesa legittima dall’eccesso colposo o doloso. Il confine tra ciò che è consentito e ciò che diventa reato è fragile, e in aula si ripercorre ogni passaggio di quei minuti convulsi: l’uscita dal negozio, l’inseguimento, gli spari in strada, la posizione dei corpi, la traiettoria dei colpi.

Il processo d’appello si annuncia dunque come uno dei più delicati degli ultimi anni in Piemonte, perché intercetta temi sociali profondi: sicurezza, autodifesa, fragilità degli esercenti, fiducia nelle istituzioni. E perché porta con sé due vite spezzate, un ferito e un imputato che dice di aver vissuto ogni istante con la convinzione che, se non avesse reagito, la sua famiglia non sarebbe sopravvissuta.

Ora la parola passa alla Corte. Sarà una decisione complessa, chiamata a misurare non solo la dinamica dei fatti, ma la linea invisibile che separa la paura dalla giustizia.

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