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Tunisia, la notte degli arresti politici: vent’anni a Chaïma Issa. La democrazia finisce in un cofano

Agenti in borghese, condanne fino a 45 anni, processi di massa e ONG ridotte al silenzio: l’“affaire du complot” diventa il pilastro della nuova stretta autoritaria voluta da Kaïs Saïed. La repressione non è più selettiva: è sistema

Tunisia, la notte degli arresti politici: vent’anni a Chaïma Issa. La democrazia finisce in un cofano

Kaïs Saïed

La sera in cui la polizia in borghese afferra Chaïma Issa per le braccia, la spinge dentro un’auto senza targa e sparisce nel traffico di Tunisi, il rumore dei clacson copre le urla dei familiari e degli avvocati rimasti sul marciapiede, immobili, incapaci di intervenire. Quel portellone che si chiude non è soltanto la fine della libertà di una donna. È il suono metallico con cui un sistema giustizia sempre più subordinato al potere politico si sigilla attorno ai suoi oppositori, trasformando il processo di massa per “complotto contro la sicurezza dello Stato” nella colonna portante della più dura stretta autoritaria della Tunisia contemporanea. L’ordine è semplice e brutale: eseguire subito le nuove condanne d’appello, fino a 45 anni di carcere, pronunciate contro 37 imputati, molti dei quali rinchiusi da quasi tre anni. E al centro della scena c’è proprio Chaïma Issa, a cui la Corte d’appello di Tunisi ha confermato una pena di 20 anni.

Il suo profilo spiega perché sia diventata un bersaglio politico. Militante femminista, scrittrice, figura chiave del principale cartello d’opposizione, il Fronte di Salvezza Nazionale (FSN), Issa non è nuova alla repressione giudiziaria. Già nel 2023 era stata processata da un tribunale militare per dichiarazioni considerate offensive verso il capo dello Stato e per “incitamento dei militari alla disobbedienza”, ricevendo 12 mesi con sospensione. Un precedente che aveva anticipato l’uso della giustizia militare come strumento per silenziare il dissenso civile. L’arresto del 29 novembre 2025, avvenuto durante una manifestazione nel centro di Tunisi, serve a dare esecuzione alla sentenza d’appello: 20 anni per “cospirazione” e altre imputazioni collegate alla legge antiterrorismo del 2015 e a diverse norme del Codice penale, un insieme legislativo che organizzazioni civiche e difesa definiscono “strumentalizzato”. Prima di essere trascinata via, Issa invita i presenti a “non cedere alla paura”. Poche ore dopo, quel monito rimbalza sui social, mentre lei viene trasferita in una destinazione ignota.

Il maxiprocesso, ribattezzato dalla stampa “affaire du complot”, nasce dal ciclo di arresti del febbraio 2023 e intreccia tre mondi che il potere considera minacce dirette: opposizione politica, avvocatura e alcuni attori economici e mediatici. In primo grado, nell’aprile 2025, le condanne sono state severissime; in appello, il 28 novembre 2025, la Corte ha confermato quasi integralmente l’impianto punitivo, rimodulando poche pene ma mantenendo l’ossatura: fino a 45 anni per gli imputati detenuti, fra 5 e 35 anni per quelli in libertà, e pene confermate o addirittura inasprite per i condannati in contumacia all’estero, fino a 43 anni. Nonostante alcune assoluzioni e riduzioni, la linea è rimasta invariata: repressione ampia, meticolosa, sistemica.

Tra i nomi più noti colpiti dalla sentenza compaiono dirigenti del Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) e di altri partiti democratici o social-liberali, come Jaouhar Ben Mbarek, Issam Chebbi, Ghazi Chaouachi, Ridha Belhaj, Khayam Turki, insieme a figure legate o vicine al partito islamico Ennahda come Noureddine Bhiri e Said Ferjani. A questi si aggiungono personalità della società civile, come l’avvocato per i diritti umani Ayachi Hammami e l’uomo d'affari Kamel Ltaief, da anni al centro di tensioni politiche e finanziarie. In appello, Ltaief ha ottenuto una riduzione che lo colloca comunque al massimo della nuova forchetta, 45 anni, mentre Hammami è sceso a 5 anni. Assolti l’ex ministro Lazhar Akremi, il broker Hattab Ben Slama e il dirigente radiofonico Noureddine Boutar.

L’arresto di Issa inaugura un effetto domino. Il 2 dicembre 2025 la polizia si presenta a casa di Ayachi Hammami, ex ministro dei diritti umani: viene prelevato e trasferito in carcere, e annuncia uno sciopero della fame. I suoi avvocati parlano di una detenzione “esemplare”, mirata a intimidire l’intera categoria forense. Nel mirino c’è anche Ahmed Nejib Chebbi, leader del FSN, condannato a 12 anni: l’arresto è considerato imminente. Le liste interne agli uffici giudiziari, secondo varie fonti, includono nomi di politici, imprenditori e giornalisti.

Le principali organizzazioni internazionali per i diritti umani – Human Rights Watch, Amnesty International, International Commission of Jurists (ICJ) e Fédération internationale pour les droits humains (FIDH) – concordano nel denunciare un processo minato da irregolarità sistemiche: detenzioni preventive prolungate oltre i limiti legali, uso estensivo e non giustificato della videoconferenza per gli imputati in carcere, capi d’accusa generici, prove giudicate inconsistenti. La seconda udienza d’appello, il 17 novembre 2025, era già stata considerata un punto critico: respinte tutte le richieste della difesa, compresa la sospensione delle udienze a distanza e la liberazione provvisoria di alcuni imputati. L’ICJ parla esplicitamente di “travestimento della giustizia”. Amnesty definisce le condanne “pesanti e ingiuste”, sottolineando che molti imputati sono stati perseguiti per l’esercizio pacifico della libertà di espressione. HRW definisce tutto il procedimento una “farsa”. La FIDH va oltre, sostenendo che la sentenza del 28 novembre rappresenta un “punto di non ritorno” nella deriva autoritaria del Paese. Il governo respinge ogni accusa, rivendica l’indipendenza della magistratura e sostiene che le misure sono necessarie per difendere la sicurezza nazionale.

tunisia

Per capire come la giustizia tunisina sia arrivata a firmare decine di anni di carcere in un solo colpo, occorre tornare al 25 luglio 2021, quando il presidente Kaïs Saïed congela il Parlamento, poi lo scioglie e governa per decreti. Nel 2022 promuove una nuova Costituzione approvata con un referendum a bassa partecipazione, rafforzando un iperpresidenzialismo senza contrappesi. L’indebolimento del Consiglio superiore della magistratura, l’uso crescente di norme penali vaghe – compresa la legge sulle “fake news” del 2022 – e la marginalizzazione dell’opposizione sono i pilastri di questa trasformazione. Le elezioni del 2024, in un clima di sfiducia e con gli avversari decapitati, consegnano a Saïed una vittoria schiacciante, mentre la crisi socioeconomica erode la capacità di mobilitazione della società. Intanto il governo irrigidisce i controlli sulle ONG: emblematica, a novembre 2025, la sospensione per 30 giorni dell’ufficio tunisino dell’Organizzazione Mondiale Contro la Tortura (OMCT), letta come un avvertimento generalizzato.

La sentenza del 28 novembre non pesa solo sugli imputati: ridefinisce l’equilibrio tra potere esecutivo, forze di sicurezza e sistema giudiziario. Essa prevede pene tra 10 e 45 anni per i detenuti, da 5 a 35 anni per gli imputati in libertà, condanne confermate o inasprite per i contumaci fino a 43 anni, oltre ad ammende e confische di beni depositati in banche tunisine. È stata mantenuta anche una minima dose di assoluzioni, che le autorità usano per sostenere l’autonomia della Corte, mentre le ONG la considerano una foglia di fico che non cambia la sostanza del processo.

Dopo l’arresto di Issa, la protesta prova a rialzare la testa: sit-in, dirette social, convocazioni spontanee davanti ai tribunali. Giovani avvocati, studenti, veterani dell’attivismo tornano in piazza, ma la paura frena tutti. Perché ora, in Tunisia, l’arresto per “esecuzione della pena” può scattare ovunque: per strada, a casa, persino durante un’intervista. Intanto Hammami annuncia lo sciopero della fame, mentre i difensori denunciano violazioni procedurali e detenzioni preventive oltre ogni limite. I sindacati restano cauti, e le diplomazie occidentali si limitano a esprimere “preoccupazione”, senza però incidere sulla linea dura del governo.

L’immagine della Tunisia come “eccezione democratica” del Maghreb è oggi un ricordo lontano. Dopo la rivoluzione del 2011, il Paese era diventato un modello di dialogo nazionale, pluralismo e Costituzione avanzata. Oggi quel capitale politico sembra dissolto. Il discorso pubblico è tornato a ruotare attorno a parole come “nemico interno”, “sicurezza”, “complotto”. La sentenza del 28 novembre non è solo un episodio giudiziario, ma un cambio di paradigma: la giustizia come strumento ordinario per neutralizzare gli avversari, superando la logica dell’arresto mirato e abbracciando quella della punizione collettiva.

Sul piano giudiziario, altre esecuzioni di pena sono attese nei prossimi giorni, con probabili arresti di Ahmed Nejib Chebbi e di altri imputati ancora in libertà. Sul piano politico, la repressione tende a compattare un’opposizione frammentata, ma la paura e la mancanza di spazio mediatico ne riducono l’efficacia. Sul piano internazionale, la convergenza delle ONG globali nel definire il processo una “farsa” non ha ancora prodotto pressioni economiche significative. L’Unione Europea appare divisa fra la necessità di collaborare con Tunisi su migrazioni e sicurezza e la difesa dei diritti.

Il tratto più inquietante è lo slittamento da una repressione selettiva a una repressione sistemica. La sospensione dell’OMCT è il messaggio più chiaro: gli spazi di libertà si restringono, la burocrazia diventa barriera, la criminalizzazione del dissenso è sempre più vicina. Gli arresti in esecuzione delle pene d’appello non sono episodi isolati, ma tasselli di un progetto che ridisegna gerarchie istituzionali e fedeltà politiche.

La formula “cospirazione contro la sicurezza dello Stato” è il grimaldello giuridico che permette tutto ciò. Una definizione elastica, capace di inglobare opinioni, incontri, messaggi, perfino post sui social, dentro un quadro penale che fonde reati politici e terrorismo. La vaghezza delle imputazioni, secondo HRW e Amnesty, ha reso possibile un processo di massa senza precedenti nella Tunisia post-2011. L’uso della videoconferenza, giustificato da ragioni di sicurezza, ha ridotto la pubblicità del dibattimento e quasi annullato la parità delle parti.

Se la sentenza d’appello reggerà senza ricorsi efficaci, la Tunisia entrerà in una fase in cui la deterrenza penale diventa il perno della gestione del conflitto politico. Resta da capire se un Paese afflitto da inflazione, disoccupazione giovanile e fragili equilibri finanziari sopporterà a lungo un clima di confronto interno permanente. La storia recente insegna che sistemi politici incapaci di tollerare pluralità e dissenso pagano prezzi altissimi in termini di innovazione, investimenti e fiducia sociale. Ma oggi, a Tunisi, sembra prevalere un’altra logica: punire chiunque osi alzare la testa.

Per Chaïma Issa, quel prezzo è 20 anni. Per altri, 5, 12, 45. Per la Tunisia, il conto – civile, morale, istituzionale – rischia di essere ben più pesante di qualsiasi cifra scritta in sentenza.


Fonti utilizzate:
Human Rights Watch, Amnesty International, International Commission of Jurists, Fédération internationale pour les droits humains, OMCT – Organizzazione Mondiale Contro la Tortura, documenti e comunicati della Corte d’appello di Tunisi, atti processuali noti alla stampa tunisina.

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