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Tentato suicidio al carcere di Torino: la Polizia penitenziaria mette in salvo un detenuto. Ma ora basta

“Occorre attenzione alle condizioni operative del personale”: l’appello dei sindacati dopo l’ultimo caso

Tentato suicidio al carcere di Torino: la Polizia penitenziaria mette in salvo un detenuto. Ma ora basta

Tentato suicidio al carcere di Torino: la Polizia penitenziaria mette in salvo un detenuto. Ma ora basta

Un detenuto del carcere di Torino ha tentato di togliersi la vita utilizzando i lacci delle scarpe al rientro dall’ora d’aria. È stato salvato in extremis dalla pronta azione del personale della polizia penitenziaria, che, giunta sul posto, ha bloccato il gesto e lo ha poi accompagnato in ospedale per accertamenti. La notizia arriva accompagnata dalle parole del segretario regionale del sindacato SAPPe, Vicente Santilli, che ha evidenziato «l’impegno, la prontezza e il senso del dovere del personale» operante in reparti complessi come il Padiglione B del penitenziario. Ma Santilli ha aggiunto una nota amara: «Serve maggiore attenzione alle condizioni operative del personale, sempre più esposto a carichi di lavoro elevati e situazioni ad alto rischio».

Parallelamente, il segretario nazionale del sindacato, Donato Capece, ha richiamato quanto ignorare il disagio – sia tra i detenuti che tra gli agenti – significhi alimentare «un sistema che produce sofferenza e perpetua violenza». Secondo Capece, la riforma del sistema penitenziario non è più solo un’urgenza morale, ma un preciso obbligo costituzionale.

Un episodio grave, eppure non isolato. Nella notte tra sabato e domenica, all’interno del carcere di Cuneo, un agente della polizia penitenziaria è stato preso a pugni da un detenuto che pretendeva la sostituzione immediata del cavo della televisione. L’aggressione – riferita dal sindacato OSAPP – è avvenuta attraverso lo spioncino della cella mentre l’agente cercava di spiegare che l’intervento sarebbe avvenuto l’indomani. Il poliziotto è stato portato in pronto soccorso e ha riportato una ferita guaribile in cinque giorni.

Il detenuto, insieme a un compagno di cella, aveva cominciato a protestare violentemente per un guasto tecnico, e la reazione è esplosa nel giro di pochi secondi. Il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, ha ammonito che «la situazione nelle carceri italiane è sempre più difficile per la polizia penitenziaria, costretta a operare con una popolazione detenuta sempre più violenta e in condizioni di grave carenza di organico».

Il carcere di Cuneo — struttura di media sicurezza che ospita detenuti italiani e stranieri — non è nuovo a episodi di questo tipo. Negli ultimi mesi il sindacato aveva già segnalato un aumento delle aggressioni al personale, proteste per futili motivi e difficoltà legate alla carenza di risorse: agenti in numero ridotto, turni estenuanti, supporto psicologico assente, logistica al minimo.

Il cavo della tv, in apparenza una richiesta banale, diventa così il simbolo di una frattura più profonda: da un lato la frustrazione dei detenuti, dall’altro la fatica di un corpo di polizia penitenziaria esposto come mai prima.

Il fatto sarà segnalato alla Procura di Cuneo per le valutazioni, ma la responsabilità individuale cede il passo a una domanda più grande: come si può garantire la sicurezza nelle carceri senza tradire la funzione rieducativa della pena? Il sistema è sotto stress, gli agenti sono sempre più soli e i detenuti sempre più spesso spaesati o arrabbiati. In questo quadro il tentato suicidio a Torino appare non solo come tragedia sfiorata, ma anche come allarme sistemico.

La sovrapposizione di emergenze – organici insufficienti, sovraffollamento, tensioni in crescita – sta consumando il sistema dall’interno, mentre l’istituzione tende ad agire per contenere il danno piuttosto che riformare radicalmente.

La situazione delle carceri italiane

Il sistema penitenziario italiano vive da anni in un’irritante contraddizione: la legge, la Costituzione e i principi internazionali prefigurano la pena come misura rieducativa; la realtà mostra un sistema sovraccarico, in tensione, spesso oltre la soglia della sostenibilità.

I dati parlano chiaro: alla data del 31 dicembre 2024 erano presenti nelle carceri italiane 61.861 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 51.312 posti. Calcolando gli spazi effettivamente usufruibili (circa 46.700 posti), il tasso di sovraffollamento raggiunge il 134%. Una condizione strutturale, non episodica.

Una relazione recente dell’associazione Antigone segnala 58 istituti su 190 con un affollamento pari o superiore al 150% della capienza, con casi estremi come il carcere di San Vittore a Milano al 220%. La detenzione – in teoria rigenerativa – diventa così affollamento quotidiano, sofferenza e rischio.

Le conseguenze sono molteplici. Primo: l’aumento dei suicidi tra i detenuti. Il Garante nazionale delle persone private della libertà personale segnala che il sovraffollamento non accenna a diminuire e che l’incremento della popolazione detenuta è più rapido del previsto. Secondo: l’impatto sulle condizioni operative del personale penitenziario. Turni massacranti, reparti complessi, agenti sotto stress crescente. Il caso del tentato suicidio a Torino e dell’aggressione a Cuneo ne sono esempi tangibili.

Il Piemonte, come anticipato, registra un tasso di occupazione oltre la capienza: 4.450 detenuti in 13 istituti con capienza di 3.979 posti. Agenti chiamati a garantire sicurezza, ordine e salute mentale in ambienti progettati per molti meno. Un divario che esplode con gesti come la richiesta del cavo TV finita in un pugno nello spioncino.

A livello nazionale, il governo ha annunciato un piano per 15.000 nuovi posti carcerari e il trasferimento dei detenuti con dipendenze in centri di cura, oltre alla liberazione anticipata di 10.000 persone. Ma queste misure arrivano in ritardo rispetto all’emergenza.

Nel frattempo mancano attività rieducative, spazi adeguati, supporto psicologico. La detenzione perde parte della sua funzione trasformativa e diventa contenimento statico. Per gli agenti, il doppio compito: custodia e reinserimento. Per i detenuti, attesa e frustrazione.

Il caso piemontese restituisce in piccolo quanto avviene in grande: una richiesta banale, un guasto tecnico, si trasforma in aggressione. Perché l’ambiente non offre più margini: frustrazione latente, relazioni tese, istituti al collasso. L’agente non è solo vittima di un gesto impulsivo, ma testimone di un sistema che non funziona. Il detenuto non è solo un aggressore, ma il simbolo di una società che rinuncia a capire.

La riforma del sistema penitenziario non può più aspettare. Servono nuove assunzioni, formazione, tutele, attività rieducative reali e percorsi alternativi alla detenzione. È urgente riconoscere che la sicurezza dentro le carceri è una questione di sicurezza sociale: un’aggressione a un agente non resta “interna”, un suicidio non resta “tra le sbarre”.

Se il sistema resta questo, la pena rischia di diventare solo reclusione dilatata, la sicurezza una speranza vaga, la rieducazione una parola spenta. Il tentato suicidio a Torino e l’aggressione a Cuneo non sono casi isolati, ma campanelli d’allarme di un sistema che implode.

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