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Cronaca
19 Ottobre 2025 - 23:02
Morte assurda sulla Rieti-Terni: autista colpito da un mattone dopo la partita di basket
Un tragico episodio ha sconvolto il mondo del basket italiano e, con esso, l’intera comunità sportiva di Pistoia. Un autista del pullman che trasportava i tifosi toscani di ritorno dalla partita contro la Sebastiani Basket Rieti è morto questa sera, lungo la superstrada Rieti-Terni, all’altezza dello svincolo di Contigliano. L’uomo, secondo le prime ricostruzioni, sarebbe stato colpito alla testa da un mattone scagliato contro il mezzo durante un violento assalto avvenuto poco dopo la fine dell’incontro di Serie A2, vinto dalla formazione pistoiese.
La tragedia si è consumata in pochi minuti. Il pullman stava lasciando la città di Rieti, carico di tifosi festanti, quando un gruppo di sostenitori locali della Sebastiani avrebbe iniziato a lanciare pietre, mattoni e altri oggetti verso il mezzo in transito. Alcuni proiettili hanno raggiunto la parte anteriore del pullman, infrangendo in più punti il parabrezza. Una delle pietre, di grosse dimensioni, ha colpito in pieno volto il secondo autista, che in quel momento si trovava seduto accanto al conducente. L’uomo è crollato sul sedile, privo di sensi. Inutile ogni tentativo di soccorso: nonostante l’arrivo tempestivo del 118, per lui non c’è stato nulla da fare.
Sulla superstrada si sono precipitate pattuglie della Polizia Stradale, dei Carabinieri e della Digos, che hanno immediatamente cinturato l’area per consentire i rilievi. La carreggiata è rimasta chiusa per ore. Sul pullman, nel frattempo, è calato il silenzio più assoluto. I tifosi di Pistoia, ancora sotto shock, sono stati fatti scendere e accompagnati in un’area di sicurezza, mentre gli agenti raccoglievano le prime testimonianze.
Secondo una prima ricostruzione, l’assalto sarebbe avvenuto in un punto dove la superstrada corre a ridosso di un cavalcavia. Alcuni individui, approfittando del buio, avrebbero atteso il passaggio del pullman per colpirlo, in un gesto di violenza incomprensibile. Il parabrezza anteriore risulta gravemente danneggiato, in particolare sul lato destro, proprio all’altezza del sedile dove sedeva la vittima.
La notizia della morte dell’autista ha immediatamente scosso le due città. A Pistoia, la squadra e i tifosi si sono stretti nel dolore, mentre a Rieti le forze dell’ordine hanno avviato un’indagine serrata per risalire ai responsabili. Le telecamere di sicurezza installate lungo la statale e nei pressi dello svincolo di Contigliano potrebbero fornire elementi utili. Gli investigatori ipotizzano i reati di omicidio e danneggiamento aggravato.
Il clima, al termine della partita, era già apparso teso. La gara, giocata al PalaSojourner, si era chiusa con la vittoria di Pistoia, un risultato che avrebbe provocato l’ira di una frangia di ultrà locali. Le due tifoserie erano state tenute separate, ma all’uscita dal palazzetto non sono mancati cori e insulti. Nessuno, però, avrebbe potuto immaginare che la rivalità sportiva potesse degenerare in una tragedia di questa portata.
Nelle ore successive sono arrivati i messaggi di cordoglio del club pistoiese, delle istituzioni locali e della Federazione Italiana Pallacanestro, che ha espresso sdegno e dolore per quanto accaduto. Anche la Sebastiani Rieti ha diffuso una nota ufficiale condannando con fermezza ogni forma di violenza e dichiarando la massima collaborazione con le forze dell’ordine per individuare i colpevoli.
Un episodio assurdo, che macchia non solo una serata di sport, ma l’intero movimento cestistico nazionale. Un autista — un lavoratore, un uomo che stava semplicemente facendo il proprio mestiere — ha perso la vita per un gesto vigliacco e insensato. Mentre gli inquirenti proseguono le indagini, resta l’amarezza per un Paese in cui troppo spesso lo sport, invece di unire, diventa il pretesto per scatenare la follia.
C’è un’Italia che si sveglia ogni mattina, lavora, si spacca la schiena, tifa con passione, ma resta civile. E poi c’è un’altra Italia, quella che aspetta dietro un guardrail, armata di odio e mattoni, pronta a distruggere tutto ciò che di buono lo sport dovrebbe rappresentare. È l’Italia del tifo marcio, della rabbia gratuita, del branco senza volto che si nasconde dietro un colore, un simbolo, una sciarpa. È l’Italia che preferiremmo non vedere, ma che continua a riaffiorare ogni volta che la violenza diventa linguaggio.
Questa non è l’Italia che vogliamo. Non è l’Italia di chi sogna, di chi accompagna i figli allo stadio per trasmettere passione, di chi si emoziona davanti a una partita. È un Paese che troppo spesso confonde il tifo con la guerra, la rivalità con l’odio, la vittoria con l’umiliazione dell’altro. E in questo cortocircuito morale, muore non solo un uomo, ma anche l’idea stessa di sport.
Ci riempiamo la bocca di parole come “valori”, “educazione”, “rispetto”. Le pronunciamo ogni volta che accade una tragedia, le affidiamo ai comunicati stampa e alle frasi di circostanza. Poi, finita l’emozione del momento, torniamo a guardare altrove. Lasciamo che i violenti occupino gli spalti, le strade, le curve, i social. Li chiamiamo “tifosi”, ma non lo sono. Sono fanatici, e un Paese che non sa più distinguere la passione dalla follia è un Paese che si è perso.
Lo sport dovrebbe unire, non dividere. Dovrebbe essere la festa delle comunità, il luogo dove ci si misura e si cresce, non un campo di battaglia dove la vita vale meno di un risultato. Eppure, ogni volta che un episodio di violenza scuote lo sport italiano, scopriamo che la cultura del rispetto non è mai davvero entrata negli spalti, nelle palestre, nei campi di periferia. È rimasta fuori, come un ospite non gradito.
Ci chiediamo come sia possibile che l’odio vinca ancora, che basti un colore diverso o una bandiera opposta per giustificare la barbarie. Forse perché abbiamo smesso di educare, e abbiamo iniziato solo a reprimere. Perché ci indigniamo dopo, ma non costruiamo mai un “prima”. Non si cambia un Paese con i minuti di silenzio, ma con anni di impegno, di cultura, di responsabilità.
Questa non è l’Italia che vogliamo, ma purtroppo è quella che continuiamo a vedere riflessa nei vetri infranti di un parabrezza, nei titoli dei giornali, nei commenti di chi giustifica tutto con un “eh, ma anche loro...”. È l’Italia che non sa più piangere con dignità né vergognarsi davvero.
E allora forse dovremmo cominciare a dircelo con onestà: la violenza non è solo colpa di chi lancia un sasso, ma anche di chi la tollera, la minimizza, la applaude da lontano. L’Italia che vogliamo non è fatta di vendette, ma di rispetto. Non di paura, ma di civiltà. Non di tifoserie armate, ma di persone che sanno ancora commuoversi davanti a una partita e stringersi, insieme, anche dopo aver perso.
Perché perdere con dignità, oggi, è diventato il più grande atto di coraggio.
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