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Cronaca
18 Ottobre 2025 - 15:32
La violentava da quando aveva cinque anni: ventidue anni di inferno ad Asti
Un inferno durato oltre vent’anni, consumato tra le mura di un alloggio popolare di Asti. È la storia di una ragazza che oggi ha 27 anni e che, secondo le accuse, da quando ne aveva appena cinque è stata vittima di abusi, violenze e umiliazioni da parte del compagno della madre, un uomo di cinquant’anni, disoccupato, ora sotto processo per una lista di reati che fa rabbrividire: violenza sessuale, riduzione in schiavitù, maltrattamenti e produzione di materiale pedopornografico.
A ricostruire il quadro di orrore sono gli atti dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto di Asti Laura Deodato, affiancata dalla pm Manuela Pedrotta della Direzione Distrettuale Antimafia di Torino. Un’indagine complessa, partita nel silenzio di un quartiere dove tutti conoscevano la famiglia ma nessuno, per anni, aveva osato sospettare fino a che punto si spingesse la crudeltà di quell’uomo.
Secondo le accuse, l’aguzzino aveva imposto alla bambina un regime di terrore: la costringeva a compiere atti sessuali, a spogliarsi, a indossare vestiti attillati, la picchiava con una racchetta da tennis, la rinchiudeva al buio senza cibo né acqua. Le vietava di usare il telefono, la obbligava a pulire il pavimento in ginocchio “per non comprare un mocio”, la minacciava di morte se solo avesse parlato. In un delirio di possesso, arrivò perfino a dirle che voleva metterla incinta, perché “doveva diventare la sua compagna” e considerare la madre “una sorella”.
Quando la donna era al lavoro — era l’unica a portare a casa uno stipendio, come dipendente di una società di marketing — l’uomo rimaneva solo con la bambina. Ed è in quelle ore che, secondo la ricostruzione degli inquirenti, consumava la violenza. La madre, inizialmente vittima a sua volta di maltrattamenti, viveva in una condizione di isolamento totale: l’uomo la teneva segregata, le impediva di avere amici, di frequentare parenti, di respirare un’aria diversa da quella del suo controllo ossessivo. Poi, quando la figlia è cresciuta, ha esteso lo stesso dominio anche su di lei. Le considerava entrambe sue proprietà.
A rompere il muro del silenzio è stato un commerciante ambulante, un uomo che da tempo notava lo sguardo spento e impaurito della madre quando si fermava al banco per fare la spesa. È stato lui, con un misto di coraggio e intuizione, a convincerla a rivolgersi alle forze dell’ordine. Quel gesto ha cambiato tutto. Gli investigatori della Polizia di Stato, sotto la direzione della Procura di Asti, hanno raccolto le testimonianze, recuperato prove e immagini che confermerebbero anni di violenze fisiche, sessuali e psicologiche.
L’uomo è stato arrestato nel dicembre scorso e rinchiuso in carcere con l’accusa di aver ridotto in schiavitù le due donne. L’inchiesta ha messo in luce una realtà fatta di sopraffazione quotidiana, di dominio psicologico, di annientamento progressivo. Il processo, ora alle prime udienze, si sta celebrando a porte chiuse nel massimo riserbo, per tutelare la privacy della vittima.
Secondo quanto emerso in aula, gli abusi sarebbero durati oltre ventidue anni. Un periodo interminabile in cui la vittima ha vissuto senza poter frequentare amici, senza scuola regolare, senza libertà. Tutto era sotto il controllo dell’uomo, che decideva perfino cosa dovesse indossare, quando potesse mangiare o dormire, quando potesse parlare. Il suo era un potere assoluto, esercitato con la forza e con la paura.
Un caso che ha scosso la città e riacceso il dibattito sulla violenza domestica, una piaga che ad Asti continua a produrre numeri inquietanti. Nel solo 2024 i centri antiviolenza del territorio hanno seguito 75 donne vittime di maltrattamenti. Secondo i dati regionali, oltre la metà degli uomini presi in carico (56,9%) aveva già commesso violenze fisiche, il 49,8% psicologiche, il 20% atti di stalking e il 15% violenze sessuali. Un quadro che restituisce l’immagine di un’emergenza strutturale, dove la casa, anziché rifugio, diventa spesso teatro di soprusi e annientamento.
Il processo di Asti, per la sua gravità e la durata degli abusi, è destinato a diventare un caso simbolo. E il coraggio di chi ha rotto il silenzio — la madre e la figlia, ma anche il commerciante che ha segnalato — rappresenta oggi l’unica risposta possibile a un male che si nutre dell’indifferenza.
È il volto più oscuro della violenza domestica: quello che si nasconde dietro le tende chiuse, dietro la paura di non essere creduti, dietro l’idea, tutta italiana, che “i panni sporchi si lavano in casa”. Ma questa volta la casa, per più di vent’anni, è stata una prigione.
E mentre la giustizia cerca di ricostruire la verità, resta una domanda che pesa più di tutte: quante altre storie come questa restano ancora sepolte nel silenzio? Secondo l’Istat, in Italia una donna su tre ha subito almeno una forma di violenza nel corso della vita, e nel 61% dei casi l’autore è una persona conosciuta, spesso un familiare. Ogni giorno, nei tribunali e nei centri antiviolenza, emergono frammenti di vite spezzate che raccontano la stessa dinamica: possesso, isolamento, paura.
Eppure, nonostante campagne, leggi, panchine rosse e slogan, il muro della vergogna e dell’omertà resiste. Perché la violenza domestica non è solo un reato: è una cultura che sopravvive nei gesti, nelle frasi, nelle scuse, nelle porte chiuse. E finché continueremo a definirla “una tragedia familiare” anziché un crimine, ci sarà sempre un’altra bambina a cui qualcuno ruberà l’infanzia.
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