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Cronaca

La professoressa condannata per la relazione col 14enne torna libera: affidata ai servizi sociali dopo due anni di carcere

Una vicenda che intreccia abusi, ricatti e scelte familiari inattese, con un figlio nato da un rapporto illecito

La professoressa condannata

La professoressa condannata per la relazione col 14enne torna libera: affidata ai servizi sociali dopo due anni di carcere

Sette anni dopo l’inizio di una vicenda che ha scosso Prato e attirato clamore nazionale, la donna oggi trentasettenne, ex operatrice sanitaria condannata per atti sessuali e violenza su minore, lascia il carcere di Sollicciano. Dopo due anni dietro le sbarre, il tribunale di Sorveglianza ha disposto la scarcerazione con affidamento in prova ai servizi sociali, accogliendo le valutazioni positive degli assistenti sociali e la prospettiva di un percorso lavorativo supportato da una borsa di tre mesi.

La storia affonda le radici nel 2017, quando la donna, allora trentunenne, intrecciò una relazione sessuale con il vicino di casa, un ragazzino che aveva appena compiuto tredici anni. Il rapporto si sviluppò durante le lezioni private di inglese che lei gli impartiva in vista dell’esame di terza media. Le indagini, e poi le sentenze, hanno ricostruito mesi di incontri ripetuti e sistematici, consumati sotto la definizione di “amore” da parte dell’insegnante e subiti dall’adolescente come una pressione crescente.

Un anno più tardi, la situazione precipitò con la nascita di un bambino. Il marito della donna, ignaro della verità, riconobbe il neonato come figlio suo, senza sapere che il padre biologico fosse in realtà il quattordicenne del piano accanto. L’adolescente, già travolto dalla responsabilità insostenibile della paternità, fu costretto a subire anche il peso di un ricatto: se non avesse continuato a cedere ai rapporti, la donna avrebbe rivelato pubblicamente quel segreto. Una spirale di violenza psicologica che portò il ragazzo a confidarsi con un istruttore di arti marziali e poi con la sua famiglia, da cui partì la denuncia. Gli accertamenti genetici non lasciarono dubbi, e il processo confermò le accuse. La condanna a sei anni e sette mesi cristallizzò la responsabilità penale della donna.

Il caso divise e stravolse due nuclei familiari. Da un lato, la famiglia della vittima, scossa al punto che i genitori del ragazzo scelsero di separarsi. Dall’altro, quella della donna condannata, che paradossalmente rimase unita: il marito tradito decise di non abbandonarla e di crescere entrambi i bambini, il maggiore e il più piccolo nato dalla relazione illecita. Oggi quel bambino ha sette anni e vive nella stessa casa insieme ai fratelli e ai genitori che lo hanno riconosciuto e cresciuto. Il giovane padre biologico, ormai ventunenne, ha scelto di chiudere i conti con quella vicenda e non vuole avere legami con la sua storia, determinato a recuperare una normalità che gli è stata sottratta in piena adolescenza.

Il tribunale, nei mesi scorsi, aveva respinto una prima istanza di detenzione domiciliare perché la donna non mostrava piena consapevolezza della gravità dei fatti. Il cambiamento di rotta è arrivato ora, quando la documentazione degli assistenti sociali ha evidenziato una stabilità domestica e la possibilità di reinserimento graduale. Secondo i giudici, la donna può ricominciare a vivere all’interno della sua famiglia, seguita però dai servizi, in un percorso che resta complesso e sotto osservazione.

La sua liberazione non chiude certo le ferite di una vicenda che ha sollevato questioni legali, etiche e sociali. Ma segna un nuovo capitolo in un caso che, sin dall’inizio, ha messo in discussione la capacità delle istituzioni e delle famiglie di riconoscere, prevenire e gestire forme di abuso che si annidano dentro contesti di apparente normalità.

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