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Cronaca

Sentenza shock a Torino: pestaggio in sette minuti, volto ricostruito con 21 placche e il giudice parla di "sfogo umano"

Torino, Gallo assolve dai maltrattamenti: il caso Regna divide, polemica su motivazioni e richiesta della pm

Torino, la sentenza

Torino, la sentenza che fa discutere: "sfogo umano" dietro un pestaggio durato 7 minuti

Un pestaggio durato sette minuti, un volto devastato e ricostruito con 21 placche di titanio, un nervo oculare lesionato, una vita spezzata in due. Eppure, la sentenza che ha chiuso in primo grado il processo contro l’ex compagno di Lucia Regna, 44 anni, ha prodotto uno shock che va oltre l’esito penale. Non è soltanto la pena – un anno e sei mesi per lesioni, contro i 4 anni e mezzo richiesti dalla procura – a sollevare polemiche, ma soprattutto le parole usate dal giudice Paolo Gallo nelle motivazioni: quell’aggressione del 28 luglio 2022 non sarebbe stato «un accesso d’ira immotivato», bensì «uno sfogo riconducibile alla logica delle relazioni umane».

L’imputato è stato assolto dall’accusa di maltrattamenti, rimanendo libero. Nelle motivazioni il magistrato ha collocato l’episodio nel contesto della fine del matrimonio ventennale, sottolineando che la donna avrebbe comunicato la separazione «in maniera brutale». Da qui la chiave di lettura che ha trasformato insulti e minacce – «ti ammazzo», «non vali niente», «pu…a» – in frasi da leggere come reazioni «umanamente comprensibili». Non una giustificazione, scrive il giudice, ma un inquadramento necessario a qualificare giuridicamente i fatti. Per la difesa dell’uomo, rappresentata dall’avvocato Giulio Pellegrino, si tratta di un esempio di rigore nell’analisi; per la parte civile, guidata dall’avvocata Annalisa Baratto, è invece una sentenza che «viviseziona e mortifica la vittima, indulgendo verso chi le ha sfondato il volto».

Il contrasto è evidente. Da una parte un uomo definito «sincero e persuasivo», dall’altra una donna rimasta segnata da un’aggressione che non può essere ridotta a «sfogo». Perché le parole del giudice hanno un effetto che va oltre il fascicolo: diventano un messaggio pubblico. E in un Paese in cui la violenza domestica continua a mietere vittime, dire che le minacce possono essere «umanamente comprensibili» rischia di incrinare quel muro culturale che da anni si cerca di costruire contro la normalizzazione degli abusi.

La vicenda ha assunto un rilievo simbolico anche grazie al gesto dei due figli di Lucia, che si sono costituiti parte civile e il 25 novembre scorso hanno affisso a scuola la foto della madre tumefatta con la scritta «Donne, denunciate subito». Un atto di denuncia sociale che ha colpito l’opinione pubblica e che oggi risuona ancora di più di fronte a una sentenza percepita come indulgente. Perché se la condanna è stata comunque inflitta, ciò che rimane scolpito è il linguaggio che la accompagna, capace di spostare il confine tra ciò che è tollerabile e ciò che non lo è.

Sul piano giuridico, la decisione apre interrogativi complessi. La distinzione tra maltrattamenti e lesioni non è un dettaglio: comporta pene molto diverse e presupposti differenti. Il giudice ha ritenuto che non ci fossero elementi per configurare un quadro sistematico di vessazioni, limitandosi a qualificare l’episodio come esplosione di violenza occasionale. Una linea interpretativa che, però, rischia di oscurare la gravità dei fatti concreti: un’aggressione di sette minuti che ha distrutto un volto e lasciato conseguenze permanenti.

Ecco il punto più controverso: il linguaggio giudiziario non è neutro. Definire «comprensibili» insulti e minacce in un contesto di separazione può apparire, agli occhi della società, come un tentativo di attenuare il peso della violenza. È un problema che riguarda non solo questa sentenza, ma l’intero rapporto tra giustizia e opinione pubblica. Perché la giustizia non comunica solo con le pene, ma anche con le parole.

Ciò che resta di questa storia sono dati incontestabili: il volto di una donna distrutto, il pestaggio durato sette interminabili minuti, una condanna a un anno e mezzo che sembra sproporzionata rispetto alla gravità delle conseguenze, la libertà dell’imputato, la frattura insanabile tra due letture opposte della stessa vicenda. Ma resta soprattutto una domanda che pesa più di tutte: può il diritto permettersi di relativizzare la violenza chiamandola «sfogo»?

Il verdetto di Torino diventa così un caso emblematico. Non soltanto per la giurisprudenza, ma per il messaggio che consegna alla società. Da un lato l’esigenza di rispettare i confini tecnici delle fattispecie penali; dall’altro il dovere di non smarrire la portata culturale delle parole. Perché ogni volta che la violenza viene descritta come «comprensibile», si rischia di aprire una crepa nel muro di protezione che si cerca di erigere attorno alle vittime.

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