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26 Agosto 2025 - 18:51
Autista insulta Ivan Notarangelo: “frocio di merda”. L’Italia sprofonda ancora nell’omofobia
Un autobus diretto al mare, un cane in braccio, il sole che batte sui vetri, la vacanza che dovrebbe cominciare con leggerezza. Poi, all’improvviso, il buio. Una frase sputata in faccia, violenta, che trasforma una giornata normale in una ferita collettiva. È quello che è successo a Capalbio, località turistica della Maremma, dove il giornalista torinese Ivan Notarangelo, figura conosciuta nel mondo politico e mediatico, è stato insultato dall’autista di una navetta. Non un rimprovero, non una discussione accesa, ma un’aggressione verbale che ha la forma e la sostanza dell’odio: “frocio di merda”.
Bastava poco per riportare le cose nella normalità. Un richiamo al regolamento, la richiesta di sistemare il cane, magari un tono brusco. Ma qui non si parla di regole, né di educazione. Si parla di discriminazione. Notarangelo viaggiava con Emi, la sua bassotta di nove anni, tenuta in braccio. Un dettaglio che ha scatenato la furia dell’autista, che non si è limitato a borbottare ma ha scelto di colpire direttamente la persona, la sua identità, la sua vita. Non è una questione di animali ammessi o vietati, di trasportini o guinzagli: è la fotografia perfetta di un’Italia che, nel 2025, riesce ancora a sprofondare nella barbarie dell’omofobia quotidiana.
L’episodio è stato subito circoscritto dall’azienda di trasporti, che ha identificato l’autista e annunciato che il suo contratto non sarà rinnovato. La solita toppa dopo lo strappo, la formula standard del “non si era mai visto prima”. Eppure quel che è accaduto non è un incidente isolato: è il sintomo di un Paese che da troppi anni lascia incancrenire i pregiudizi, che permette a certe parole di viaggiare impunite nello spazio pubblico, come se fossero battute da bar e non lame affilate.
Ivan Notarangelo non è un nome qualsiasi. Classe 1978, giornalista e comunicatore torinese, ha collaborato con figure di spicco come Mercedes Bresso, Piero Fassino e Davide Gariglio. Nel 2021 ha guidato la campagna elettorale di Stefano Lo Russo, diventando poi suo portavoce. È uno che di politica ne conosce i meccanismi, che ha sempre lavorato per proteggere l’immagine degli altri. Questa volta, però, ha scelto di esporsi in prima persona. Non per mettersi al centro, ma per dire basta. Perché, se è accaduto a lui, che ha strumenti, voce e visibilità, cosa succede ogni giorno a chi non può difendersi?
Ed è qui che il fatto di Capalbio smette di essere una semplice cronaca estiva e diventa un caso nazionale. Non perché l’autista sia stato volgare – di autisti maleducati è pieno il mondo – ma perché quel gesto rivela il vuoto normativo e culturale che ancora ci circonda. L’Italia, nel 2025, è l’unico grande Paese dell’Europa occidentale a non avere una legge nazionale contro i crimini d’odio omotransfobici. Le coppie dello stesso sesso hanno solo unioni civili, niente matrimonio, niente adozione. I sondaggi dicono che oltre due terzi degli italiani sarebbero favorevoli a colmare questo vuoto, ma la politica continua a guardare altrove. Risultato: nel ranking europeo di ILGA-Europe, l’Italia è al 35º posto su 49. Una retroguardia, un fanalino, un’anomalia che pesa come un macigno.
Il paradosso è che ogni volta che un insulto omofobo viene sbattuto sui giornali, l’indignazione esplode per qualche giorno e poi si spegne. Nel frattempo, la giustizia continua a oscillare. Basta ricordare il caso di Cuneo, poche settimane fa: un ventisettenne ha insultato due amici con le stesse parole rivolte a Notarangelo e ha colpito uno di loro con un pugno. Il pubblico ministero ha chiesto un anno di carcere, ma senza riconoscere l’aggravante discriminatoria, perché quell’insulto sarebbe “di uso comune”. È qui che si vede il vero problema: non solo l’odio, ma la sua normalizzazione. Quando la giustizia accetta che “frocio di merda” sia un insulto qualunque, allora la società intera si inchina davanti al pregiudizio.
L’omofobia non è un problema che riguarda soltanto chi ne è vittima diretta. È un veleno che intossica tutti. Limita i legami sociali, irrigidisce i ruoli, alimenta paura e silenzi. Fa sì che chi non c’entra nulla resti spettatore passivo, che si minimizzi con un’alzata di spalle, che si preferisca voltarsi dall’altra parte. È questo il meccanismo che Notarangelo ha voluto denunciare. Non solo l’offesa ricevuta, ma il modo in cui simili episodi vengono trattati: prima la solidarietà, poi il fastidio, infine il “anche meno, dai”. È questo silenzio che pesa, più ancora dell’urlo dell’autista.
E allora la domanda non riguarda più soltanto una navetta di Capalbio. Riguarda un Paese intero, che da troppi anni si rifiuta di fare i conti con la propria arretratezza. Le istituzioni locali hanno espresso vicinanza, certo. Lo stesso sindaco di Torino ha fatto sapere di essere al fianco dell’ex portavoce. Ma la solidarietà non basta. Servono leggi, servono scelte, serve una volontà politica che smetta di giocare con i diritti come se fossero optional. Fino a quando questo non accadrà, ogni insulto continuerà a essere possibile, legittimo, “di uso comune”.
Il coraggio di Ivan Notarangelo è stato quello di trasformare un’umiliazione privata in un atto pubblico. Di raccontare, di mettere in piazza quello che molti preferiscono nascondere. Perché un insulto omofobo non è un incidente di percorso, ma una ferita che riguarda tutti. E perché un Paese che permette che un insulto del genere resti senza conseguenze è un Paese che tradisce se stesso.
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