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26 Agosto 2025 - 14:46
Non ci sarà nessun ritorno, nessuna bara avvolta nel tricolore, nessuna folla ad accogliere l’eroe al suo ultimo viaggio. Luca Sinigaglia resterà per sempre sul Pik Pobeda, il gigante di ghiaccio da 7.439 metri che si innalza al confine tra Kirghizistan e Cina, e che ha inghiottito i suoi ultimi respiri il 15 agosto. A decretarlo è stata la revoca, improvvisa e inspiegabile, delle autorizzazioni per la missione di recupero. Un team italiano era già pronto a decollare da Bishkek con un elicottero, i soccorritori avevano programmato le manovre e la speranza di riportarlo a casa sembrava a portata di mano. Ma la decisione delle autorità locali ha spento tutto: missione annullata, Luca resterà lassù.
Il suo nome, fino a pochi giorni fa sconosciuto al grande pubblico, oggi risuona nelle cronache italiane e internazionali. Aveva 49 anni, era nato a Melzo, nel milanese, e lavorava come esperto di cybersecurity. Una vita ordinaria che, appena poteva, si trasformava in straordinaria. Perché la sua vera dimensione era la montagna, quella vera, severa, che non concede nulla. L’obiettivo che inseguiva da anni era il riconoscimento di “Snow Leopard”, il sogno di ogni alpinista sovietico: scalare i cinque settemila dell’ex URSS. Gli mancava il Pik Pobeda, “la montagna della Vittoria”. Un nome beffardo, perché proprio lì, sul terreno della sua ultima sfida, ha trovato la morte.
Ma la sua storia non è quella di un uomo che inseguiva soltanto un record personale. Al contrario, è la storia di un uomo che si è fermato quando un’altra alpinista, la russa Natalia Nagovitsyna, ha avuto un incidente: frattura a una gamba, bloccata a circa 7.000 metri, in una zona dove persino respirare diventa una lotta. Luca non ha esitato: ha caricato viveri, fornello, bombola di gas, sacco a pelo, e ha risalito la montagna fino a 7.200 metri, deciso a non lasciarla sola. Lì ha trascorso la notte, stringendosi a lei e a un altro alpinista, tentando l’impossibile: sopravvivere a oltre 7.000 metri, nel gelo, con una bufera che urlava tutto intorno.
L’ultimo messaggio, un semplice “tvb” inviato dal telefono satellitare, oggi suona come una dichiarazione d’amore alla vita, agli affetti, forse alla stessa montagna. Poi più nulla. Edema cerebrale da alta quota, ipotermia, congelamento:un trittico fatale che non lascia scampo. La mattina successiva Luca non si è più rialzato.
La notizia della sua morte è arrivata in Italia come una coltellata. Giorno dopo giorno si è parlato del suo coraggio, delle manovre di soccorso, della possibilità concreta di riportarlo giù. Le autorità kirghise avevano persino dato il via libera a una missione italiana di recupero: due piloti esperti e una guida alpina erano già sul posto, con un elicottero pronto a partire. Ma proprio quando sembrava fatta, nella notte tra il 24 e il 25 agosto, è arrivata la beffa: autorizzazione revocata, senza alcuna spiegazione.
Il risultato è che i corpi di Luca e di Natalia resteranno lassù, nel regno eterno dei ghiacci. Una decisione che ha lasciato sgomente le famiglie e amareggiata la comunità alpinistica internazionale. “Un Paese non può permettersi di lasciare così i suoi figli” hanno commentato alcuni esperti, ricordando come in passato operazioni di recupero siano state possibili in condizioni persino più difficili. Ma la realtà, fredda e implacabile come la neve del Tian Shan, è che Luca Sinigaglia non tornerà a casa.
In tanti oggi lo definiscono un eroe. Un uomo che ha messo la vita davanti a un principio non scritto, ma sacro per chi vive la montagna: non abbandonare nessuno. Ha rinunciato al suo sogno per un gesto di umanità. Ha pagato con la vita una scelta che, per lui, probabilmente non era nemmeno in discussione. E questo fa la differenza tra un semplice alpinista e un uomo che diventa simbolo.
C’è un paradosso che pesa come una pietra: la montagna che avrebbe dovuto incoronarlo con il titolo di “Snow Leopard” ora lo custodirà per sempre. Il Pobeda, la “Vittoria”, si è trasformato in una tomba di ghiaccio, eppure anche in un monumento al coraggio. Perché Luca non è morto per inseguire la gloria personale, ma per un gesto di fratellanza.
In Italia, nel suo paese, lo ricorderanno così: non con la medaglia del “Leopardo delle Nevi”, ma con l’aura di chi ha dato tutto per gli altri. A Melzo, dove era nato, e tra i colleghi della cybersecurity, resta l’immagine di un uomo semplice, capace di sorridere e di sparire ogni volta che la montagna lo chiamava. E oggi quella montagna lo ha voluto per sé, senza restituirlo.
Molti alpinisti sanno che questo può accadere: a certe altitudini non si recupera, si resta lassù, tra rocce e ghiacci, diventando parte del paesaggio eterno. E Luca, che aveva scelto di sfidare i giganti del cielo, è ora uno di loro.
La sua storia è amara, ma anche luminosa. Racconta di un’Italia che sa ancora esprimere uomini capaci di sacrificio e amore. Racconta che non sempre la vittoria sta nella vetta conquistata, ma a volte nel gesto che decide di fermarti per salvare un altro. È questo che fa di Luca Sinigaglia non soltanto un alpinista caduto in montagna, ma un eroe silenzioso che resterà per sempre sulla cima del mondo.
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