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Cronaca

Luigi Ferrando, l’uomo che parlava con le viti

Addio al patriarca del Carema: con le mani sporche di mosto e la testa piena di storia ha custodito per tutta la vita un vino impossibile. Visionario, ironico, tenace. Oggi il Canavese piange il suo più grande vignaiolo

Luigi Ferrando

Luigi Ferrando

C’era una volta un uomo che sapeva parlare con le viti. Non per scherzo, non per metafora. Le ascoltava davvero, una per una, sopra quei muretti a secco che si arrampicano come cicatrici verdi sulle montagne di Carema, nel nord del Piemonte. E loro, le viti, gli restituivano ogni parola sotto forma di vino. Non vino qualunque. Vino che sapeva di fatica e di pietra, di radici millenarie e mani screpolate. Vino che parlava. Quest’uomo si chiamava Luigi Ferrando. E ora che non c’è più, a 84 anni, sembra quasi che anche la terra, per un attimo, si sia zittita.

Il 17 luglio, la chiesa di Sant’Ulderico a Ivrea era piena. Fino all’ultima panca. Piena di amici, parenti, produttori, osti, colleghi, estimatori. Ma soprattutto piena di riconoscenza. Perché Luigi Ferrando non è stato soltanto un grande vignaiolo. È stato un pensatore rurale, un intellettuale contadino, un artigiano della memoria, un uomo che ha dato un senso profondo alla parola "identità". A rendergli omaggio c’era anche l’intera comunità vitivinicola del Canavese, un mondo che oggi sembra più fragile senza di lui. "Visionario e lungimirante", lo ha definito Mauro Carosso, presidente di AIS Piemonte, "le sue intuizioni hanno allargato gli orizzonti del vino canavesano". E aveva ragione.

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Per capire davvero chi era Luigi Ferrando, bisogna tornare indietro. Tornare al 1890, quando il suo bisnonno Giuseppe Ferrando lasciò Acqui per trasferirsi a Ivrea. Voleva vendere vino piemontese in Valle d’Aosta, e per farlo scelse un crocevia che guardava al nord, ma con i piedi ben piantati nella terra di mezzo. I Ferrando erano commercianti, gente di botti e di damigiane, non ancora vignaioli. Ma le cose cambiarono nel 1957, quando Luigi, poco più che ventenne, e suo padre Giuseppe, decisero di scommettere tutto su un vino quasi dimenticato: il Nebbiolo di Carema.

Non era una scelta facile. Carema non era – e non è – un luogo comodo. È una conca stretta tra le montagne, terrazzata a mano, su pendii che sfidano la verticalità. “Quando ci andrà lo vedrà coi suoi occhi: le viti non sono state piantate, stanno lì dai tempi dei Romani”, raccontava Luigi. E davvero, a Carema, le pergole sono ancora sorrette da colonne doriche, resti di un'agricoltura che ha più di duemila anni.

Eppure, proprio lì, in un luogo quasi impossibile, Luigi trovò la sua patria. “Carema è un gioiellino dell’enologia”, diceva. Era una sfida: dove c’erano solo 30 centimetri di terra sopra la roccia, lui riusciva a far nascere vini che oggi portano la DOC Carema nel cuore delle carte dei ristoranti stellati. Ma per arrivare fin lì, ci sono volute decine di migliaia di ore di lavoro. “Se nelle Langhe bastano 500 ore per coltivare un ettaro - raccontava - qui a Carema ce ne vogliono almeno 2000. È un’altra viticoltura. E devi essere testardo, devi crederci molto. Io ho continuato finché ho potuto. Ma oggi c’è mio figlio Roberto, e per fortuna ha la testa dura”.

Sì, perché Luigi Ferrando non ha fatto solo il vino: ha resistito. Ha resistito all’abbandono dei terreni, al frazionamento della proprietà, all’avanzata del bosco, all’illusione del “grande numero” che rende invisibili i piccoli.

“Per avere visibilità oggi ci vogliono cinque milioni di bottiglie. Noi, quando tutti fanno le loro patère, arriviamo a un milione e due”. Eppure, le sue bottiglie, specie quelle dell’Etichetta Nera, si cercano, si custodiscono, si bevono come reliquie. Persino Robert Parker, il papa americano del vino, gli diede 93/100.

“Noi fuori dai gusti internazionali. Noi che producevamo vini che la gente non sapeva nemmeno cosa fossero...”, diceva quasi ridendo.

Il vino per Luigi Ferrando era tempo. Non solo nel senso dell’invecchiamento. Ma tempo umano, stagionale, culturale. Ogni bottiglia racchiudeva una storia, un sacrificio, una memoria. Nelle interviste che rilasciava con slancio, raccontava di quando, da giovane, trasportava 500 litri d’uva in mezza giornata, con la brenta, perché non c’erano strade.

Raccontava delle vendemmie nude nei tini a zero gradi. Raccontava di un amico che impiegava 35 minuti per salire a raccogliere 50 chili di uva. Raccontava dell’evoluzione del legno: da botti da 55 ettolitri a barrique da 500 litri. E raccontava, soprattutto, della sua cantina: scavata nella montagna, con le botti calde d’inverno, grazie a una stufa che installò dieci anni dopo che l’amico Giorgio Grai glielo aveva suggerito. “Siamo un po’ tardi, noi piemontesi”, ammetteva con ironia.

Ma dietro ogni battuta, c’era una filosofia profonda. Luigi Ferrando credeva nel legame indissolubile tra territorio e cultura, tra paesaggio e comunità. Denunciava la fine dell’agricoltura part-time sognata da Adriano Olivetti, ricordava come le Cantine Sociali di Carema e Piverone fossero nate proprio per permettere agli operai di continuare a coltivare la loro terra. Denunciava la perdita di artigiani, muratori, contadini. Denunciava il fatto che la tecnologia aveva superato le persone. “Il piccolo mondo del vino era bello, ma anche lento. E quando nessuno ti dà retta, è dura cambiare”.

Il suo pensiero andava oltre la vigna. Quando parlava della vigna del Cavalier Domatti, 2 ettari costruiti dai muratori canavesani che lavoravano in Svizzera, si commuoveva: “Era intonsa fino a venti anni fa. Poi, bisticci tra fratelli. E ora è abbandonata. È così. Tutti hanno un altro lavoro, e quando tornano a casa, non ne hanno più voglia…”.

Ma lui sì. Luigi Ferrando aveva voglia. Sempre. Voglia di cercare, di capire, di sperimentare. Anche quando piantava Nebbiolo a Bollengo per verificare un’intuizione del ‘500. Anche quando stringeva accordi con famiglie di Carema per poter produrre vino in loco, nonostante il frazionamento. Anche quando lanciava l’allarme sull’abbandono delle vigne: “Terreni abbandonati in mezzo a quelli coltivati: un pasticcio. Ma si tiene duro. Si va avanti”.

Il vino, per lui, era anche compagnia. Ricordava le serate con Giacomo Bologna, con Zanella, con Grai. Ricordava la notte delle ostriche arrivate dalla Normandia, le corse in auto giù dai tornanti, le cene coi tartufi. Ricordava i consigli preziosi, i fusti di whisky per celebrare la nascita di un figlio, le follie geniali dei suoi amici. Ricordava tutto, e lo raccontava con la lucidità e la dolcezza di chi sa di aver vissuto un’epoca irripetibile.

Oggi quella voce si è spenta, ma il suo eco è ancora forte. È nelle bottiglie di Carema che portano il suo nome. È nel figlio Roberto e nel fratello Andrea, che hanno raccolto il testimone e continuano a lavorare con la stessa ostinazione. È nei racconti dei suoi allievi, nei brindisi fatti in suo onore, nei libri che lo citano, nei ristoranti che servono il suo vino con orgoglio. È nei muri a secco, nei grappoli piccoli e scuri, nelle pergole costruite come templi.

“Il vino era la mia lingua”, avrebbe potuto dire. E quella lingua oggi ha perso uno dei suoi maestri. Ma chi ha bevuto anche solo una volta un sorso del suo Carema, sa che Luigi Ferrando non morirà mai davvero.

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