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Cronaca

Poliziotti nella bufera. Giustizia è fatta. Ma chi ripaga il calvario di Alice Rolando?

"Il verdetto che libera Alice Rolando: assoluzione troppo tardiva per riparare una vita ferita"

Poliziotti nella bufera. Giustizia è fatta. Ma chi ripaga il calvario di Alice Rolando?

Alice Rolando

Per quattro lunghi anni ha portato sulle spalle il peso di un’accusa infamante. Quattro anni di attesa, di sospetti, di silenzi pesanti come pietre, di titoli a metà e sguardi storti. Ora, Alice Rolando, dirigente storica del commissariato Dora Vanchiglia, può finalmente tornare a respirare. Il tribunale l’ha assolta con formula piena: per non aver commesso il fatto. E in quell’aula di giustizia, nel momento in cui la sentenza è stata pronunciata, le lacrime non sono state di dolore, ma di liberazione.

Il giudice dell’udienza preliminare Giovanna De Maria ha cancellato ogni ombra: Rolando era estranea a quanto accaduto tra le mura del commissariato durante le operazioni al centro del processo. Non sapeva, non era coinvolta, non era complice. Ma se la verità giudiziaria arriva oggi limpida, il danno umano, morale e professionale resta inciso nella sua storia. Perché nessuna assoluzione potrà restituirle quegli anni vissuti in una sorta di limbo, appesa a un procedimento penale che la voleva al vertice di una macchina piegata alla disinvoltura investigativa.

I fatti risalgono al 2020. È in quell’anno che il commissariato Dora Vanchiglia finisce nel mirino della Procura di Torino. Le accuse sono pesanti: arresti condotti con modalità irregolari, violenze su soggetti fermati, verbali falsificati per coprire operazioni “creative”. Si parla di pressioni indebite su confidenti, operazioni antidroga condotte come se si trattasse di blitz speciali, senza autorizzazione e senza protocolli, con gli agenti che si fingevano clienti per incastrare i pusher.

A finire condannati sono in cinque. Il nome più importante è quello di Roberto De Simone, sostituto commissario, figura centrale dell’indagine: tre anni e cinque mesi di reclusione. È lui, secondo l’accusa, ad aver orchestrato tutto. È lui che avrebbe istigato un civile a spacciare cocaina per poi arrestarlo. È lui che avrebbe ordinato a un informatore di consegnare droga promettendo ricompense in denaro e libertà.

Seguono le condanne per Danilo Ricci, assistente capo di polizia, tre anni. Poi per Agostino Caruso, tre anni e dieci mesi, con accuse gravissime: rapina, sequestro di persona, detenzione illegale di una pistola. E ancora Elmhedi Touzi, tre anni e quattro mesi, a sua volta spacciatore e confidente, un uomo che in questo processo ha vissuto il paradosso di essere imputato e parte civile allo stesso tempo. Infine Simone Graziani, un anno e quattro mesi, che secondo l’accusa sarebbe stato spinto da De Simone a vendere 150 grammi di cocaina sotto copertura.

Ma mentre le condanne delineano un quadro torbido, con poliziotti che violano le regole che dovrebbero tutelare, l’assoluzione di Alice Rolando brilla come un’eccezione. Una donna che ha servito lo Stato per anni, che aveva già lasciato il servizio quando è iniziata la bufera, e che da allora ha vissuto con l’etichetta di sospetta, come se bastasse un’inchiesta per azzerare una carriera.

alice

La Procura, con il pubblico ministero Gianfranco Colace, aveva ipotizzato che anche il vertice del commissariato fosse coinvolto. Ma la sentenza ha tracciato un confine chiaro: la responsabilità è individuale, non per forza gerarchica. Il giudice ha stabilito che Rolando non c’entrava nulla. Una verità processuale netta, che contrasta con le insinuazioni che hanno accompagnato il suo nome sui giornali per mesi. Nessuna prova, nessuna complicità, nessun comportamento illecito.

Restano, invece, le macchie indelebili su chi – secondo la sentenza – ha davvero piegato la divisa alla legge del “fine giustifica i mezzi”. Restano i verbali alterati per far sembrare regolari operazioni che non lo erano. Restano le testimonianze di chi avrebbe subito pestaggi e intimidazioni per collaborare. Restano le domande su come sia potuto accadere che, in un commissariato di quartiere, ci si spingesse tanto oltre da fingere blitz sotto copertura, spacciandoli per interventi di polizia giudiziaria.

E resta anche la figura tragica e paradossale di Touzi, usato e tradito, spacciatore che diventa “agente” per un giorno, trattenuto con corde, preso a calci, e poi lasciato libero di fuggire in cambio di una soffiata. Un mondo capovolto in cui il confine tra legalità e abuso si dissolve in nome del risultato.

Il caso Dora Vanchiglia, oggi, si chiude – almeno in primo grado – con condanne pesanti e un’assoluzione che pesa più di tutte. Ma per Alice Rolando, la vera sentenza non è scritta solo in un dispositivo. È nel tempo perduto, nella dignità ferita, nella carriera macchiata da un sospetto rivelatosi infondato.

Perché ci sono assoluzioni che assolvono una persona, ma non cancellano il dolore.

La giustizia che arriva tardi. E lascia cicatrici

Ci sono assoluzioni che arrivano troppo tardi. Non perché siano ingiuste, anzi. Ma perché quando la giustizia finalmente parla, il danno è già fatto. È il caso di Alice Rolando, ex dirigente del commissariato Dora Vanchiglia di Torino, che dopo quattro anni di attesa e sospetti, è stata assolta per non aver commesso il fatto. Il giudice l’ha prosciolta senza appello. Ma la domanda resta: chi risarcisce una vita messa in pausa? Chi rimborsa le notti insonni, le voci sussurrate nei corridoi, le strette di mano che si sciolgono a metà?

Nel frattempo, mentre Rolando si portava addosso un’accusa infamante, intorno a lei si consumava una vicenda torbida, dai contorni inquietanti. Agenti che – secondo il tribunale – falsificavano verbali, picchiavano i fermati, usavano confidenti come carne da manovra. Un teatro del paradosso in cui la legge diventava un costume da indossare per legittimare l’abuso.

Viene in mente “Training Day”, il film di Antoine Fuqua con Denzel Washington nei panni di un detective che ha perso il confine tra bene e male. Anche lì, come a Dora Vanchiglia, ci sono operazioni antidroga “creative”, infiltrazioni sotto copertura improvvisate, e quella convinzione pericolosa che “il fine giustifica i mezzi”. Una frase che nei commissariati dovrebbe suonare come un’allerta, non come un programma operativo.

Oppure si potrebbe citare “Serpico”, con Al Pacino, il poliziotto onesto isolato in un sistema corrotto. Ma in questo caso non è un singolo a denunciare i colleghi: è la magistratura che arriva a smascherare un uso spregiudicato della divisa. Solo che lo fa tardi, quando il fango ha già fatto il suo corso. Quando il nome di Alice Rolando è già passato sotto la graticola mediatica. Quando il beneficio del dubbio non ha retto alla forza delle illazioni.

E allora torna un altro film, “Il caso Thomas Crawford” con Anthony Hopkins, dove l’assoluzione finale arriva come un colpo di scena, ma lascia una scia di amarezza. Perché anche l’innocenza, quando viene proclamata dopo anni, non ripara il torto subito. Lo certifica. Lo cristallizza. Ma non lo cancella.

C’è un dato, fra tutti, che dovrebbe far riflettere: la giustizia ha stabilito che Rolando non c’entrava nulla. Eppure, per quattro anni, è rimasta appesa a quell’inchiesta. È stata associata ai suoi sottoposti, trascinata nel vortice di un’accusa infondata. Colpevole per vicinanza. Colpevole per gerarchia. Colpevole per sentito dire.

Nel frattempo, chi aveva davvero travalicato i confini – secondo la sentenza – proseguiva il proprio percorso fino all’arrivo della condanna. Ma il sistema, che avrebbe dovuto proteggere chi era innocente, è rimasto in silenzio. Nessuna voce ufficiale a difendere la reputazione di una dirigente rimasta sola di fronte alla macchina giudiziaria.

Ora che il sipario si chiude, viene da chiedersi: cosa abbiamo imparato? Che la giustizia esiste, sì. Ma ha i suoi tempi. E spesso arriva quando il treno della vita è già passato. Quando l’onore è già stato infangato. Quando la carriera è finita. Quando il nome è già stato sussurrato abbastanza da restare, per sempre, nel dubbio di chi non legge mai fino alla fine.

Alice Rolando è stata assolta. Ma chi ha sbagliato nei suoi confronti non dovrà rispondere a nessuno. È questa l’altra faccia del problema: la totale impunità di chi ha lasciato che una donna innocente fosse trascinata nel fango senza prove. Nessuna indagine sulle indagini. Nessun procedimento su chi ha costruito castelli accusatori su sabbie mobili. E allora, sì, la sentenza di assoluzione è importante. Ma resta un'amara consolazione.

Perché come diceva Jake Gittes in Chinatown: “Ci sono cose che non si possono sistemare. Si può solo cercare di sopravvivere”.

E in questa storia, Alice Rolando è sopravvissuta. Ma non ne è uscita indenne.

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