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Cronaca
16 Giugno 2025 - 17:51
Michele Maravita
Si chiamava Michele Maravita, aveva 55 anni e abitava a Ivrea. È morto questa mattina a Bruino, nel Torinese, schiacciato dal camion che lui stesso aveva parcheggiato pochi minuti prima. Un destino assurdo e atroce che lo ha colpito mentre stava lavorando in un cantiere per la posa della fibra ottica in via Rivalta. Un altro nome da scrivere nella lunga, lunghissima lista dei morti sul lavoro in Italia.
Secondo una prima ricostruzione dei carabinieri di Pinerolo, affiancati dalla polizia locale e dai tecnici dello Spresal dell’Asl To3, il camion di cui Maravita era alla guida ha iniziato a muoversi all’indietro lungo un tratto di strada in leggera pendenza, perché non era stato inserito il freno a mano. Una disattenzione? Un malfunzionamento? Le indagini dovranno stabilirlo, ma quello che è certo è che Michele è stato travolto e ucciso all’istante. Inutili i soccorsi. L’elisoccorso, atterrato in pochi minuti, ha potuto solo constatarne il decesso.
Michele Maravita era dipendente della Trucco Sistemi di Telecomunicazioni, una ditta con sede a Busnago, in provincia di Monza-Brianza, specializzata in infrastrutture per le telecomunicazioni. Lavorava a decine di chilometri da casa, come tanti operai in trasferta, impegnati in una quotidianità fatta di chilometri, turni, appalti, scadenze. Inseguiti dal cronometro, pressati dalle commesse, spesso in solitudine, senza un’adeguata rete di sicurezza. In tutti i sensi.
La dinamica è tanto semplice quanto agghiacciante: un mezzo pesante lasciato senza freno di stazionamento, una strada con una lieve pendenza, e un operaio che si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato. Ma non si può ridurre tutto a una fatalità. No. Perché quando si muore in un cantiere per un camion che scivola da solo, è evidente che qualcosa non ha funzionato. E non solo nel freno.
È mancato – forse – il controllo. Forse la formazione. Forse la sorveglianza. O forse, semplicemente, è mancato il rispetto per la vita di chi lavora. Un rispetto che si traduce in procedure, attenzione, cultura della sicurezza. Una cultura che in Italia è ancora carente, discontinua, troppo spesso piegata alla logica dell’urgenza e del risparmio.
Il nome di Michele Maravita va ora ad aggiungersi alle oltre mille vittime l’anno del lavoro in Italia. Mille nomi, mille storie, mille famiglie distrutte. E quasi mai un colpevole. Quasi mai un processo. Quasi mai una vera riflessione collettiva. Si piange qualche giorno, si dedica un minuto di silenzio, poi si volta pagina. E si riparte. Fino alla prossima vittima.
E intanto, mentre i giornali aggiornano le cronache, mentre le autorità promettono accertamenti, Michele non c’è più. E non c’è più per un motivo inaccettabile: lavorava.
Insomma, possiamo davvero continuare a morire così? Per un freno a mano non tirato? Per una fretta che non lascia spazio all’attenzione? Per una negligenza che non dovrebbe essere possibile? Sì. Possiamo. Perché in Italia, troppo spesso, lavorare uccide.
E finché si continuerà a parlare di “incidenti” e non di “omicidi della negligenza”, nulla cambierà. Michele Maravita è morto oggi. E domani, se tutto resterà com’è, toccherà a qualcun altro.
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