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Cronaca
20 Maggio 2025 - 18:45
foto archivio
C’era una volta un poliambulatorio. Una palazzina in corso Nigra, che un tempo accoglieva medici, pazienti, appuntamenti, vite quotidiane. Oggi invece è solo l’ombra di sé stessa: vetri rotti, calcinacci, umidità alle pareti, puzza di muffa e disperazione. Si chiama Casa Molinario, anche se ormai di casa ha ben poco. È un relitto urbano. E come ogni relitto, attira. Attrae. Seduce. Soprattutto chi è giovane, annoiato e con un telefono in tasca.
È successo proprio lì, domenica scorsa, attorno alle 18.30. Quattro ragazzi – adolescenti o poco più – hanno deciso che salire sul tetto dell’ex Poliambulatorio poteva essere un buon modo per concludere il weekend. Prima hanno sfondato i vetri, poi si sono arrampicati fino in cima. Forse per farsi un selfie, forse per una diretta su TikTok, forse solo per sfidare la legge di gravità. Che sarà mai un tetto, in fondo, quando tutto il mondo sta in uno schermo da sei pollici?
Il rooftopping, lo chiamano così. È la moda del momento. Consiste nel salire abusivamente sui tetti di edifici abbandonati o grattacieli (quando disponibili), rigorosamente senza protezioni, per scattare foto da postare online. È il brivido del proibito che diventa contenuto. È la follia che diventa intrattenimento. È un click che vale più del buonsenso.
E così, i quattro improvvisati acrobati si sono presi il loro momento di gloria. Ma non erano soli. Qualcuno ha visto. Qualcuno ha chiamato. E carabinieri e polizia sono intervenuti, allertati da passanti che li hanno visti infilarsi nel rudere con fare sospetto e poi spuntare tra le tegole. Non ci sono stati feriti – questa volta. I ragazzi sono stati identificati, rimproverati, riportati a terra.
Ma il vero problema è che questa storia non stupisce più nessuno.
Non stupisce che esista una generazione disposta a rischiare la vita per uno scatto virale. Non stupisce che esistano genitori che non sanno dove siano i propri figli. Non stupisce che, nel 2025, esista ancora un edificio pubblico abbandonato nel cuore di Ivrea, lasciato in balia del tempo, dei topi e dei ragazzini spericolati.
Non è la prima volta che Casa Molinario torna alla ribalta per episodi simili. E non sarà l’ultima. Come altri luoghi simbolo del degrado urbano eporediese, è diventato un non-luogo: non è più utile, non è più sicuro, non è più gestito. È una ferita aperta, che si preferisce ignorare. Finché qualcuno non ci sale sopra.
La città assiste, in silenzio. L’amministrazione osserva, al massimo promette. I residenti si lamentano, ma poi si rassegnano. Intanto, i tetti si trasformano in trampolini di visibilità. Per qualche like, per una manciata di followers, per una storia da raccontare agli amici. Per sentirsi vivi, in una città che troppo spesso sembra addormentata.
Pensa te… Quattro ragazzi sul tetto di un ex ambulatorio, a sfidare la morte, mentre giù a terra nessuno si prende cura della vita. Forse è questa l’immagine più fedele di Ivrea oggi.
C'è un luogo in corso Nigra che racconta meglio di tanti discorsi la parabola discendente della città. È Casa Molinario, edificio austero, imponente, una volta pieno di vita, oggi ridotto a rifugio per topi, vandali e adolescenti in cerca di brividi. Un tempo ospitava il poliambulatorio dell’ASL TO4, e quindi aveva un senso, una funzione, un’utilità sociale. Oggi non ha più niente, se non macerie, vetri rotti e un destino incerto.
La sua chiusura nel 2017, in seguito al trasferimento delle attività sanitarie nella nuova sede di via Ginzburg, sembrava l’inizio di una nuova era. Via i medici, dentro nuove idee. Ma si sa: a Ivrea i progetti partono con entusiasmo e si fermano a metà strada. O peggio, si perdono nel pantano della burocrazia e del disinteresse.
Il primo sogno a cadere fu quello del supermercato FiorFioreCoop. Era il 2016 quando la proprietà dell’edificio – la società Genco – propose di realizzare un punto vendita di 2.500 metri quadrati. Ma c’era un dettaglio: il Piano Regolatore prevedeva un limite massimo di 900 metri quadrati per le attività commerciali in quella zona. La richiesta di variante urbanistica, le proteste dei commercianti del centro, i ricorsi, i dibattiti… e alla fine? Nulla. Tutto saltato.
Poi arrivò l’idea del B&B. Un progetto forse più modesto, più compatibile con la vocazione residenziale della zona. Ma anche lì, promesse e disegni su carta: il degrado avanzava più velocemente dei permessi edilizi. Gli atti vandalici, le effrazioni, i furti di rame (quattro arresti nel 2020), la sporcizia… e anche quel progetto è evaporato.
Nel frattempo, mentre tutti cercavano di dimenticare Casa Molinario, lei restava lì. A monito. A vergogna. A ferita aperta. A ricordarci quanto sia facile lasciar marcire il patrimonio di una città che ha smarrito la visione, e forse anche la voglia di cambiare.
Finché, un giorno qualunque, quattro ragazzini sfondano i vetri e salgono sul tetto. Forse per scattarsi un selfie, forse solo per sentirsi vivi in mezzo a tanta indifferenza. Intervengono carabinieri e polizia. I ragazzi vengono identificati. L’area viene messa in sicurezza. Casa Molinario torna per un attimo sulle pagine dei giornali.
La verità è che un edificio può morire lentamente, ma muore davvero solo quando la città smette di guardarlo.
Casa Molinario è ancora lì, immobile, muta, decadente. Ma parla. E racconta meglio di mille conferenze stampa una verità semplice e crudele.
Serve il coraggio degli amministratori comunali di mettersi seduti attorno a un tavolo con il proprietario, per ridare a questo edificio una nuova vita.
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