AGGIORNAMENTI
Cerca
Cronaca
14 Maggio 2025 - 14:45
Giuseppe Gioffrè, ucciso dopo 40 anni: la ‘ndrangheta non dimentica
San Mauro Torinese, 11 luglio 2004. Una domenica d’estate, il sole che cala lento dietro le colline, e un pensionato di 77 anni che si gode il fresco della sera su una panchina nel giardinetto sotto casa. Pochi minuti dopo, cinque colpi di pistola risuonano nel silenzio del quartiere. Giuseppe Gioffrè cade a terra, colpito a morte. I killer fuggono su una Fiat Uno che verrà trovata poco dopo, data alle fiamme. Una scena da esecuzione mafiosa. Eppure ci vorranno anni per capire che si trattava di una vendetta antica, covata per decenni, figlia di una delle faide più feroci della ‘ndrangheta calabrese.
A distanza di oltre vent’anni, la giustizia fa il suo corso, e lo fa oggi nell’aula austera della Corte d’assise d’appello di Torino.
Il procuratore generale Marcello Tatangelo, con tono fermo e senza esitazioni, ha chiesto la conferma delle condanne a trent’anni di reclusione già pronunciate in primo grado nei confronti di Giuseppe Crea e Paolo Alvaro, accusati dell’omicidio di Giuseppe Gioffrè. Una decisione che arriva dopo un’indagine lunga, complessa, a tratti dimenticata, ma riaperta con caparbietà e, soprattutto, con l’aiuto della scienza.
Per comprendere l’assassinio del 2004 bisogna tornare indietro.
Anni Sessanta. Sant’Eufemia d’Aspromonte, provincia di Reggio Calabria. Un paesino segnato da tensioni sociali, dove la criminalità organizzata gestisce affari, controllo del territorio, vendette e giustizia fai-da-te. In questo contesto vive Giuseppe Gioffrè, un piccolo commerciante, titolare di una rivendita di generi alimentari. Il suo errore? Forse solo quello di voler lavorare onestamente, senza pagare pizzo, senza sottostare a logiche di clan.
Nel 1964, durante una discussione accesa, Gioffrè uccide due uomini ritenuti legati alla cosca Dalmato-Alvaro.
Un fatto che apre una crepa insanabile. La ‘ndrangheta non perdona. Non dimentica. E non conosce il concetto di prescrizione della vendetta. Gioffrè viene arrestato e condannato, ma mentre è in carcere, la sua famiglia diventa bersaglio.
Nel 1965 la moglie e il figlio vengono trucidati in un agguato notturno e tutt'intorno crescono le leggende da tramandare nei racconti di paese. Tra le tante ne spunta una negli atti processuali: uno dei vendicatori avrebbe bevuto il sangue delle vittime, in un rituale arcaico che simboleggia l’eterna sete di giustizia criminale. Un giuramento di morte. Una promessa da onorare a ogni costo.
Gioffrè sconta la sua pena, e nel 1976 decide di lasciarsi tutto alle spalle. La Calabria, il dolore, la morte. Si trasferisce in Piemonte, a San Mauro Torinese. Qui si risposa, trova lavoro, cerca una nuova vita. Una vita normale, da ex detenuto che ha saldato il conto con la giustizia. Ma la ‘ndrangheta ha una memoria ferrea, più longeva degli uomini.
Passano gli anni. Gioffrè diventa un anziano, poi un pensionato. I suoi vicini lo conoscono come una persona discreta, gentile, con il tono calabrese ancora marcato ma nessuna voglia di parlare del passato. È convinto di aver sepolto l’incubo. Non sa che il conto, per la ‘ndrangheta, non è ancora saldato.
Quel pomeriggio dell’11 luglio 2004, due uomini si avvicinano alla panchina dove Gioffrè è seduto. Nessuna parola. Solo cinque colpi. L’uomo muore sul colpo. Nessun testimone diretto, solo tracce, sospetti, e una bottiglietta d’acqua abbandonata nei pressi dell’auto usata per la fuga, una Fiat Uno trovata carbonizzata poche ore dopo. Un dettaglio che all’epoca non portò a nulla, ma che anni dopo si rivelerà fondamentale.
Le indagini iniziali portano all’arresto di un primo indagato, Stefano Alvaro, che verrà condannato a 21 anni. Ma la verità è parziale. Solo nel 2022, grazie all’impiego di nuove tecnologie forensi, i carabinieri del RIS riescono ad analizzare il DNA presente sulla bottiglietta. Quel profilo genetico porta a Giuseppe Crea, legato alle cosche calabresi. Le indagini, ora più solide, permettono di collegare anche Paolo Alvaro, figlio di uno dei due uomini uccisi da Gioffrènel 1964. Una storia che chiude il cerchio. Una vendetta portata a termine 40 anni dopo, con calma, determinazione e ferocia.
I due imputati sono stati giudicati separatamente in primo grado e condannati entrambi a 30 anni di carcere. La Corte d’assise d’appello ha deciso di riunire le due posizioni e oggi il procuratore generale Marcello Tatangelo ha ribadito la gravità del fatto, definendo “non condivisibile” la concessione delle attenuanti generiche.
“Non si tratta solo di un omicidio — ha dichiarato Tatangelo — ma di un’esecuzione pianificata con fredda lucidità, motivata da un codice d’onore mafioso che nulla ha a che vedere con la civiltà. Nessuna attenuante può essere concessa a chi ha portato avanti una vendetta tribale a distanza di decenni, dopo che la giustizia dello Stato si era già espressa”.
La storia di Giuseppe Gioffrè è emblematica. Racconta come le faide di ‘ndrangheta possano attraversare le generazioni, valicare i confini geografici, e colpire anche quando tutto sembra dimenticato. Ma racconta anche quanto sia importante la perseveranza delle forze dell’ordine e il progresso della scienza forense. Senza quell’analisi del DNA, il caso sarebbe rimasto archiviato come tanti altri.
È una storia di sangue e memoria, dove la giustizia dello Stato ha impiegato vent’anni per dare una risposta, e dove il silenzio apparente di una città del Nord ha celato per anni una ferita che affonda le radici in Calabria.
Una verità si impone con forza: nessun tempo è troppo lungo per la vendetta mafiosa. Ma nessun tempo è troppo tardi per la giustizia.
LA VOCE DEL CANAVESE
Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.