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Cronaca
02 Maggio 2025 - 09:26
foto d'archivio
Il bambino ha pianto. E quel pianto ha cambiato tutto. Fino a un attimo prima, per i nonni – che ancora non sapevano di esserlo – si trattava solo di un dolore alla pancia, forse colpa della stitichezza. “Venite, nostra figlia ha un male insopportabile, sta malissimo”, hanno detto al telefono. Era la notte tra il 24 e il 25 marzo, comune della cintura nord di Torino, un appartamento come tanti. Ma dietro la porta del bagno, si stava consumando una scena che in pochi dimenticheranno.
Una ragazza di vent’anni, sola, seduta a terra, il viso rigato dalle lacrime, i capelli incollati al sudore, il corpo spezzato dallo sforzo, dal trauma, dal non detto. Di fronte a lei, immerso nell’acqua del water, un neonato. Appena nato. Ancora sporco di sangue e liquido amniotico. Il cordone ombelicale galleggiava tra l’acqua e l’orrore.
Il piccolo, quasi tre chili, era vivo. Per un soffio. I sanitari del 118 lo hanno afferrato, soccorso, portato via di corsa verso il Maria Vittoria. Oggi sta bene. È stato affidato a una famiglia. Per lui si è aperto un altro futuro. Ma dietro, resta il mistero.
Perché? Come si arriva a partorire in casa, da sola, nel silenzio più totale? E soprattutto: quella madre lo sapeva? Ha voluto negarlo? Fino a che punto si può fingere che il proprio corpo non stia cambiando, che una vita non stia crescendo dentro?
foto archivio
Lei, la giovane, non parla. Assistita dagli avvocati Salvatore Crimi e Xu Yunjie, per ora ha scelto il silenzio. Quando la polizia è entrata in casa l’ha trovata sotto shock, incapace di spiegare. O di capire. Sembrava non sapere nemmeno lei cosa fosse appena accaduto.
Il padre del bambino è stato identificato. È un coetaneo, sentito dagli investigatori, ha riconosciuto il figlio.Nessun test del DNA, almeno per ora. Ma non avrebbe mai saputo nulla della gravidanza. Né lui, né i nonni. Né gli amici. Né i vicini. Nessuno.
Possibile? Sì. Succede. Lo spiega lo psichiatra Vincenzo Villari, primario alle Molinette: “Si chiama negazione della gravidanza. Avviene anche in donne senza diagnosi psichiatrica. La mente respinge ciò che il corpo comunica. Non lo vede. Non lo vuole.” Il ciclo può apparire regolare, la pancia può sembrare solo un po’ gonfia. E il cervello costruisce una barriera che rende tutto invisibile. Anche a sé stessi.
Ma la procura non si ferma alla psiche. Indaga. La pm Antonella Barbera ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di tentato omicidio. Al momento c’è una sola indagata: la madre. E tante, troppe domande.
Quel neonato è finito nel water per caso? È scivolato? Lei ha tentato di affogarlo? Oppure è svenuta, non ha capito, non ha retto la paura? I punti oscuri sono ancora tanti. Ma una cosa è certa: il parto è avvenuto al nono mese. Il bambino era a termine. Vivo. Forte abbastanza da sopravvivere a tutto.
Quella notte, raccontano i soccorritori, la ragazza all’inizio sembrava cosciente del figlio. Lo ha riconosciuto. Lo guardava. Ma dopo poche ore si è chiusa in un silenzio assoluto. Nessuna visita in ospedale. Nessuna richiesta. Nessuna domanda. Come se volesse rimuovere tutto. Come se non fosse mai successo.
E attorno a lei, l’incredulità. Possibile che nessuno si fosse accorto di nulla? Nemmeno i genitori, che vivevano con lei? Nemmeno le amiche, i colleghi, i vicini? Forse la pancia era piccola. Forse lei ha scelto abiti larghi, silenzi comodi, sguardi sfuggenti. Forse, davvero, non voleva vedere. Non voleva sapere.
“Il bambino era percepito come qualcosa di estraneo, di non voluto. E così viene rimosso, trascurato, dimenticato”, spiega ancora Villari. La paura di crescere. Il terrore di cambiare. Il peso di un amore che non c’è. Tutto questo può trasformare una gravidanza in un blackout. Fino all’esplosione finale.
E quella notte è esploso tutto. Urla nel bagno. Un vagito che squarcia il buio. Un telefono che squilla. Le sirene. I passi concitati. Il sangue sulle piastrelle. E un bambino – quel bambino – che oggi è vivo. Ma che ha già attraversato l’inferno.
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