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Cronaca

30 euro per rompersi le ossa: ecco quanto vale la vita a Porta Palazzo

Lavoratori in nero, feriti e dimenticati. Dopo l’inchiesta sull’infortunio del 2021, la Procura chiede il processo per nove persone. Nel cuore di Torino, si lavora senza diritti per 30 euro a settimana

30 euro per rompersi le ossa: ecco quanto vale la vita a Porta Palazzo

Era il tardo pomeriggio del 21 novembre 2021 quando, tra le ultime luci del giorno e i rumori delle bancarelle che venivano smontate, un uomo rimaneva incastrato negli ingranaggi di un banco motorizzato.

Un facchino italiano, pagato pochi spiccioli e impiegato in nero, urlava dal dolore nel cuore del mercato di Porta Palazzo, tra l’indifferenza e la frenesia della chiusura.

Da quel momento, per lui, è cominciato un calvario clinico fatto di cinque operazioni chirurgiche all’Ospedale San Giovanni Bosco e di un verdetto che gli cambierà la vita per sempre: invalidità permanente. Ma da quella gamba maciullata è venuta fuori anche una verità ben più vasta, ben più profonda, che oggi si traduce in una richiesta di rinvio a giudizio per nove persone da parte della Procura della Repubblica di Torino.

porta palazzo

Quello che le indagini hanno portato a galla è uno spaccato drammatico e inquietante. Dietro il volto multietnico e colorato del più grande mercato all’aperto d’Europa, si muove ogni giorno all’alba un esercito invisibile di uomini e donne – italiani e stranieri, molti dei quali irregolari, privi di ogni tutela, senza contratto, senza formazione, senza neppure un paio di guanti da lavoro. Operano dalle quattro del mattino per movimentare circa 750 banchi, spesso in condizioni fatiscenti, per un compenso da fame che, secondo quanto documentato, può oscillare tra i 20 e i 30 euro a settimana per ogni banco. È una macchina del lavoro grigia, oleata con il sudore e l’abbandono. C’è chi lavora anche mentre percepisce il reddito di cittadinanza, chi invece non ha neppure un permesso di soggiorno in tasca. C’è chi comanda, chi delega, chi chiude un occhio. E alla fine nessuno si assume responsabilità.

Sono stati i tecnici del Servizio SPreSAL dell’ASL, intervenuti subito dopo l’infortunio, a inviare una prima relazione alla magistratura. Da lì in poi, la palla è passata al Nucleo Carabinieri Ispettorato del Lavoro di Torino, che ha scavato a fondo tra testimonianze, documenti e realtà che in troppi fanno finta di non vedere. La ricostruzione ha evidenziato una gestione approssimativa e pericolosa della sicurezza, dove il concetto stesso di prevenzione è inesistente. Nessun piano di rischio. Nessuna nomina di un responsabile per la sicurezza, come imposto dalle leggi. Lavoratori in nero ben oltre il limite consentito – un dato che, in teoria, farebbe scattare la sospensione immediata dell’attività. Ma a Porta Palazzo, si sa, le regole sono relative. E così c’è chi ha affidato i lavori a soggetti senza controllare minimamente la loro regolarità, creando una catena di responsabilità che oggi la Procura intende spezzare.

Le accuse spaziano dalla violazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro alla percezione indebita del reddito di cittadinanza, fino all’impiego di lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno. Una somma di reati che fotografa non solo una singola tragedia, ma un sistema che quotidianamente calpesta diritti e dignità. Per ora, si tratta solo di una richiesta di rinvio a giudizio: i nove indagati sono in stato di libertà e, come la legge prevede, valgono per loro la presunzione di innocenza. Ma l’onda lunga dell’inchiesta scuote dalle fondamenta un contesto che, tra tolleranze e consuetudini, ha per troppo tempo confuso il confine tra legalità e necessità.

Il caso riapre interrogativi cruciali su uno dei luoghi simbolo della Torino popolare e commerciale. A Porta Palazzo si compra di tutto, si mescolano culture e provenienze, si girano film e documentari, ma si lavora anche – e soprattutto – nell’ombra. Nessuno vuole mettere in discussione l’importanza economica e sociale di questo spazio, ma ciò che le indagini raccontano è che dietro l’apparente vitalità si cela una sistematica violazione dei più elementari diritti del lavoro.

Nel silenzio generale, qualcuno ha pagato col proprio corpo. Quel facchino, oggi segnato per sempre, è la prova vivente che in Italia si può ancora lavorare come nell’Ottocento, ma con la benedizione della modernità e della finta inclusione. E se la giustizia farà il suo corso, sarà solo un primo passo per restituire dignità a chi ogni mattina, prima ancora che la città si svegli, carica, spinge, smonta e sparisce. Senza nome. Senza voce. Senza tutele.

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