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Cronaca

“Siamo stati aggrediti in via Po perché gay”. Il post di Mattia diventa virale: “L’Italia è bella, ma può ucciderti”

Una coppia colpita da una baby gang in pieno centro a Torino. Il racconto-denuncia sui social scuote le coscienze. Rosatelli: “Gravissimo atto omofobo”. Le indagini sono in corso.

“Siamo stati aggrediti in via Po perché gay”. Il post di Mattia diventa virale: “L’Italia è bella, ma può ucciderti”

Succede in centro a Torino. Succede in una notte di aprile, quando il clima è mite e le strade del centro si riempiono di giovani, di luci, di chiacchiere. Succede in via Po, tra i tavolini dei bar, le arcate storiche e il profilo della Mole che si intravede tra i lampioni. Succede mentre tutti pensano che sia una serata come le altre, e invece non lo è. Perché quella notte, due ragazzi vengono aggrediti. Picchiati. Umiliati. Solo per essere una coppia. Solo per amarsi. Solo per esistere.

Sono le vittime di un’aggressione brutale e vigliacca, consumata nel cuore della città, a pochi metri da tutto e da tutti. Nessuna provocazione, nessun pretesto. Solo la loro presenza, la loro normalità, il loro amore. E quella normalità, a qualcuno, è bastata per colpire. Per scaricare rabbia, frustrazione, ignoranza, odio. A raccontarlo è Mattia Gualdi, uno dei due giovani aggrediti, che dopo l’accaduto ha scelto di non tacere. Di non nascondersi. Di non far finta che sia stato solo un brutto episodio. Perché non è stato un episodio. È stato l’ennesimo segnale di un Paese che non è sicuro per tutti. Non è accogliente con tutti. Non garantisce gli stessi diritti e la stessa libertà a tutti.

Lo ha fatto con un post su Facebook, dal titolo amaro e provocatorio: “Postcards from Italy”. Ma invece di spiagge e monumenti, quella cartolina racconta botte e paura. Racconta di una serata iniziata come tante e finita con lividi sul corpo e una frattura nell’anima. “Venerdì notte io e Dani siamo stati attaccati da un branco di sconosciuti in centro a Torino senza nessuna motivazione, se non quella che hanno le cosiddette baby-gang: cercare di riempire una vita vuota e misera, formare un branco per darsi un’identità”, scrive Mattia. Ed è in queste parole che si percepisce tutto: lo sconcerto, la rabbia, la consapevolezza di ciò che è accaduto e perché. E la denuncia si fa ancora più dura: “Dal momento che le famiglie non trasmettono la minima empatia ed educazione, ci si sente forti solo tramite la violenza di gruppo, perché il governo italiano attuale trasmette solo messaggi di odio, discriminazione e disprezzo verso la vita umana”.

Le frasi sono taglienti. Non c’è retorica, non c’è vittimismo. C’è la realtà. Una realtà che fa male. Una realtà in cui due ragazzi possono essere pestati per strada senza che nessuno intervenga. Una realtà in cui chi vive un amore non conforme agli standard di una certa parte della società deve ancora guardarsi intorno, sperare di non essere visto, evitare di sfiorarsi in pubblico.

Mattia continua: “Sì, anche le minoranze sono vite umane. Non solo i feti mai nati, che a quanto pare valgono più di cittadini che combattono ogni giorno per affermarsi in uno Stato marcio”. È qui che il post diventa qualcosa di più. Non solo un racconto, ma una presa di posizione politica, etica, umana. Un atto di accusa contro l’ipocrisia di chi si riempie la bocca di “vita”, ma poi non si indigna quando la vita, quella vera, quella vissuta ogni giorno da chi è gay, lesbica, trans, viene colpita, discriminata, calpestata.

Poi Mattia si sofferma sulle conseguenze. “Stiamo bene. I lividi se ne andranno. Ma le cicatrici resteranno. Ci ricorderanno per cosa stiamo lottando”. E ancora: “Abbiamo condiviso la nostra faccia e la nostra storia perché vogliamo che se ne parli. Forse a un certo punto lo Stato italiano sarà in grado di organizzarsi per fermare delle bande di sedicenni impazziti. Potrebbero farcela? Nel frattempo, proteggetevi e fate attenzione. Noi siamo più che felici di tornare a casa. E a malincuore, non torneremo più per un po’”.

Parole che pesano come macigni. Che parlano non solo dell’aggressione, ma di ciò che resta dopo. Della voglia di sparire, del dolore di sentirsi rifiutati in una città che dovrebbe accogliere e invece allontana. Della fatica di dover ancora spiegare perché sia inaccettabile venire pestati per un bacio o una carezza.

A rispondere, nelle ore successive, è stato Jacopo Rosatelli, assessore comunale ai Diritti. Le sue parole sono state chiare: “Siamo di fronte a un’aggressione omofoba. Un fatto gravissimo. Le istituzioni devono intervenire, e lo faremo”. Il Comune ha promesso sostegno alle vittime e l’attivazione di un percorso legale e psicologico. Ma Mattia, nel suo post, lo dice chiaramente: non bastano più le promesse. Serve un cambiamento. Serve che qualcosa si muova. Che qualcuno, una volta per tutte, si assuma la responsabilità di fermare l’odio prima che colpisca ancora.

La polizia ha acquisito i filmati delle telecamere di sorveglianza della zona. Le indagini sono in corso, anche se al momento non risultano denunce formali. Ma i fatti parlano da soli. E gridano. Gridano che a Torino, nel 2025, si può ancora finire in ospedale perché si è gay. Che l’amore, in questo Paese, è ancora un campo minato per molti. Che basta poco, pochissimo, per trasformarsi in bersaglio.

E intanto il post di Mattia continua a essere condiviso. A girare tra storie, bacheche, messaggi. Non per compassione, non per pietà, ma perché è giusto. Perché è necessario. Perché ogni volta che una storia così viene raccontata, una parte di silenzio si rompe. E forse, un giorno, sarà quel rumore a salvare qualcuno.

Succede ancora. Succede troppo spesso. Succede dove non dovrebbe più succedere. Ma almeno questa volta qualcuno ha parlato. E ha parlato forte.

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