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Cronaca
08 Aprile 2025 - 21:59
Alex Cotoia
Non è stato odio, non è stata vendetta, e nemmeno rabbia cieca. Non è stata nemmeno una reazione sproporzionata a una provocazione qualsiasi. È stata, secondo la Corte d’Assise d’Appello di Torino, una reazione estrema e disperata, maturata in un contesto devastante, che ha portato Alex Cotoia, all’epoca diciannovenne, a colpire per 34 volte con sei coltelli diversi il padre, Giuseppe Pompa, durante un’ennesima esplosione di violenza domestica. Un gesto drammatico, ma che i giudici hanno inquadrato nella cornice della legittima difesa putativa, assolvendo il giovane dall’accusa di omicidio volontario.
Le motivazioni della sentenza di assoluzione, depositate nei giorni scorsi, ricostruiscono un quadro familiare di ordinario terrore, fatto di soprusi, minacce e continue aggressioni, dove la figura paterna assume contorni ossessivi e persecutori. “Gelosia patologica”, scrivono i giudici. Un “insopprimibile desiderio di imporsi sui familiari”. Una dominazione brutale, continua, che si manifestava soprattutto nei confronti della moglie, vittima abituale di maltrattamenti. Ma anche sui figli, Alex in primis.
La sera del 30 aprile 2020, nella casa di famiglia a Collegno, tutto precipita. Scoppia l’ennesimo litigio. Il padre sembra fuori controllo. Le urla, le minacce, la paura. E Alex interviene. È il culmine di anni vissuti in una condizione di sopraffazione psicologica e fisica, documentata anche da testimonianze e perizie. “Alex – si legge nella sentenza – si è difeso fino a quando ha constatato che il padre era inerme e non costituiva più un pericolo”. Quella furia, secondo i giudici, non è esplosa per frustrazione, odio o vendetta, ma per un panico profondo, una reazione istintiva, alimentata dalla convinzione – seppur errata – che il genitore stesse per afferrare un coltello. “Anche a voler ritenere – scrivono – che Alex abbia agito nella erronea convinzione che il padre intendesse armarsi, ci sono elementi concreti idonei a indurre nell’imputato la ragionevole persuasione di trovarsi in pericolo”.
È questa convinzione, maturata in un contesto “a dir poco drammatico”, che ha spinto i giudici a riconoscere la scriminante della legittima difesa putativa. E a smontare, punto per punto, l’impianto accusatorio sostenuto dalla Procura generale, che nel secondo processo aveva chiesto la condanna del ragazzo, contestando l’attendibilità delle testimonianze rese dalla madre e dal fratello di Alex, entrambi presenti in casa quella sera.
Ma la Corte ha rigettato questa impostazione, sottolineando come sia del tutto comprensibile che i racconti di chi ha vissuto in prima persona una tragedia familiare possano risultare “parziali, incoerenti, non perfettamente lineari”. È l’effetto naturale di un trauma. “Tali elementi – scrivono i giudici – sono spiegabili con la drammaticità della situazione e il forte coinvolgimento emotivo dei testimoni”.
E poi c’è l’altro elemento fondamentale: la scena del crimine contaminata. Secondo la Corte, l’attività investigativa è stata compromessa sin da subito. “La scena fu pesantemente contaminata dai soccorritori e irrimediabilmente compromessa nel corso delle operazioni di rilievo tecnico operate dai carabinieri nell’immediatezza”. Un dettaglio che ha influito sulla ricostruzione iniziale, alimentando fin dall’inizio un’ipotesi accusatoria non supportata da prove cristalline.
Il caso di Alex Cotoia, sin dall’inizio, ha scosso l’opinione pubblica. Non solo per la brutalità del gesto – 34 coltellate sono una cifra che pesa – ma per la dolorosa complessità del contesto in cui è maturato. Non si è trattato di un omicidio d’impeto, né tantomeno di una premeditazione. È stato il tragico epilogo di una convivenza impossibile con un padre violento, che per anni ha trasformato l’ambiente familiare in una prigione emotiva. Non è un caso che Alex abbia raccontato, in una delle udienze, di aver usato il fondotinta della madre per nascondere i lividi. E non è un caso che il fratello, durante il processo, abbia dichiarato: “In quella casa non c’era mai pace, papà era un tiranno”.
Quattro anni dopo, la giustizia ha riconosciuto ciò che la cronaca ha provato a raccontare fin dal primo giorno: che Alex ha agito per proteggere sé stesso, sua madre, suo fratello. Ha agito per paura. Ha agito perché, quella sera, temeva che l’ennesima violenza potesse diventare l’ultima. E in questo, la legge – pur con tutta la sua freddezza – ha saputo vedere l’umanità dietro la tragedia.
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