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“Vi ammazzo, vi do fuoco”: minacce e mazzate, ma il Comune tace

Leonardo e il suo compagno vivono da mesi in mezzo agli scatoloni, con lo spray al peperoncino in tasca e una mazza da baseball dietro la porta. Vittime di violenza omofoba, aspettano da un anno un trasferimento promesso. Ma le istituzioni tacciono, mentre il terrore bussa ancora alla loro porta

Terrore a Torino: un gattino scatena un incubo omofobo

Torino, 2025. In via Arquata, accanto alla sede dell’Agenzia Territoriale per la Casa, la vita non scorre. Trattiene il fiato, resta sospesa. Dentro a uno degli alloggi popolari, Leonardo Ranieri, 59 anni, vive da mesi in mezzo agli scatoloni. Non perché sta traslocando. Ma perché lo sta aspettando. Da troppo tempo.

Aspetta di essere trasferito. Aspetta che qualcuno, tra Regione, Comune, Atc e servizi sociali, mantenga una promessa. Aspetta una casa. Ma, più di tutto, aspetta di potersi sentire al sicuro.

Perché Leonardo non ha solo il problema di una porta vecchia, di un termosifone che non funziona, o di un affitto da pagare. Leonardo ha una mazza da baseball dietro la porta e lo spray al peperoncino in tasca. Ha un compagno che è finito in ospedale. Ha un vicino che ha sfondato la loro porta a colpi di mazza e che si è ripresentato con un coltello in mano.

E ha un sistema attorno che si muove con la lentezza glaciale di chi ha imparato a convivere con il dolore altrui.

Tutto inizia anni fa. Era il 2019 quando Leonardo venne brutalmente aggredito, insultato e minacciato di morte per il suo orientamento sessuale. La notizia fece il giro del Paese. Le istituzioni, almeno allora, si mostrarono presenti: un ricovero d’urgenza a To-Housing, il progetto di accoglienza dedicato a chi, nella comunità LGBTQ+, vive situazioni di emergenza. Poi l’assegnazione di un alloggio popolare. Un nuovo inizio.

Ma i mostri, se non li si affronta davvero, trovano sempre la strada per tornare. E nel maggio 2023, l’incubo ricomincia. Stavolta l’aggressione è ancora più violenta, ancora più assurda. Un vicino, lo stesso che tempo prima aveva regalato loro un gattino, sfonda la porta di casa con una mazza e colpisce alla testa il compagno di Leonardo. Il motivo? Voleva indietro il gatto. E ha pensato bene di farlo a modo suo, gridando insulti omofobi mentre brandiva l’arma.

In qualsiasi altro contesto, questo basterebbe per mobilitare tutto e tutti. Ma in questa storia no. Qui non c’è stata una fuga in una casa protetta. Nessuna sistemazione urgente. Nessuna tutela piena. Solo carte, attese, moduli, colloqui saltati. E una violenza che, anziché dissolversi, si è infilata nei muri, nelle crepe della porta distrutta, nei silenzi del vicinato.

E quando i carabinieri finalmente arrestano l’aggressore, succede l’impensabile: Leonardo e il suo compagno finiscono a loro volta sotto inchiesta. L'accusa è quella di aver reagito, di aver risposto ai colpi con dei calci. Difendersi non è più un diritto, sembra quasi diventare un crimine.

A tutto questo, si aggiunge l’indifferenza. Il peso di chi – davanti a due uomini che chiedono aiuto – alza le spalle e sussurra: “Siete adulti, saprete cavarvela”. Parole pronunciate da un ufficio pubblico, come se il fatto di essere adulti potesse neutralizzare la violenza, come se le botte, gli insulti, la paura, fossero più leggere per chi ha compiuto cinquant’anni.

Poi, finalmente, arriva una buona notizia: una nuova casa verrà assegnata. Una sistemazione più sicura, lontana dal pericolo. Leonardo firma l’accettazione a febbraio. Ma siamo ad aprile, e ancora niente. Nessuna chiamata, nessuna firma sul contratto. Solo un’attesa che logora, che spegne ogni barlume di fiducia.

Nel frattempo, la violenza non aspetta. Non rispetta i tempi dei lavori di ristrutturazione, non si ferma davanti a un ufficio chiuso il venerdì. Il vicino si è fatto rivedere, coltello alla mano. Nessuno si è fatto male, per miracolo. Ma è chiaro che la tregua non esiste. Non c’è mai stata.

Leonardo e il suo compagno oggi non vivono: resistono. Rinchiusi in un appartamento che non sentono più casa, circondati da un quartiere ostile dove vengono additati per aver “rovinato la vita a un amico”. Offesi, isolati, dimenticati.

Eppure, il loro è un grido che dovrebbe essere ascoltato da tutti. Non solo perché è giusto. Ma perché è sintomo di un fallimento collettivo. Delle istituzioni che non riescono a proteggere chi è più esposto. Dei meccanismi che si inceppano proprio quando dovrebbero essere più rapidi, più umani. E di una società che, pur dichiarandosi inclusiva, spesso si volta dall’altra parte.

C’è chi, dietro una scrivania, ricorda la “triangolazione tra enti”, i “confronti continui”, le “procedure in corso”. Ma a Leonardo quelle parole non servono. Lui ha bisogno di un mazzo di chiavi, non di circolari. Di una porta che si apra su un nuovo inizio, non su un'altra minaccia.

E se è vero che le case popolari sono un diritto, non un favore, allora questo diritto va garantito anche – e soprattutto – quando le cose si complicano. Quando c’è da proteggere. Quando c’è da scegliere da che parte stare.

Leonardo ha fatto la sua parte. È rimasto, ha parlato, ha chiesto aiuto. Ora tocca a chi governa questa città e questa regione decidere se ascoltarlo o lasciarlo marcire in mezzo agli scatoloni.

Perché il tempo, qui, non è solo una questione di attesa. È una questione di vita.

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