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L'inutile caccia al killer del panettiere

Cuorgnè 7 giugno 1980. Un delitto irrisolto a Cuorgnè nel 1980, legami con la ‘ndrangheta e il clan Belfiore, e un'inchiesta che potrebbe essere riaperta

Il punto dove venne ucciso Barberino a Cuorgnè

Il punto dove venne ucciso Barberino a Cuorgnè

Non venne mai trovata la Beretta calibro 7,65, una delle due pistole automatiche che, all’una di notte del 7 giugno del 1980, all’angolo fra via Maurizio Parigi e piazza Pinelli, nel vecchio centro storico di Cuorgnè, esplose complessivamente sette colpi di pistola contro il panettiere Pasquale Barbarino, 40 anni, vittima di una vendetta dai contorni rimasti sbiaditi.

Delitto insoluto, nonostante una mole impressionante di indagini che andarono a riempire decine di faldoni lasciati per parecchio tempo sulla scrivania del sostituto procuratore della Repubblica di Ivrea, Enrico Gumina, il pm che coordinò l’inchiesta dei carabinieri di Cuorgnè e del Nucleo investigativo di Ivrea.

Barbarino, originario di San Felice a Cancello, in provincia di Caserta, fu freddato a poca distanza dall’ingresso del suo negozio: un agguato in piena regola che fece subito pensare a un’esecuzione per qualche sgarro commesso dal panettiere quarantenne, arrivato al Nord come tanti altri suoi compaesani in cerca di lavoro e di un po’ di fortuna.

Un’esecuzione che portò gli inquirenti anche a scandagliare il mondo della ‘ndrangheta, che stava mettendo radici in Canavese, grazie, soprattutto, all’uso sbagliato ma ormai consolidato del soggiorno obbligato, al quale vennero condannati decine e decine di mafiosi e ‘ndranghetari, pronti a riorganizzare le proprie attività criminali lontano dai loro paesi d’origine, in Meridione.

Ma dell’omicidio Barbarino, archiviato con la dicitura “ad opera di ignoti”, si tornò a parlare qualche anno dopo, durante le indagini per l’agguato mortale al procuratore capo della Repubblica di Torino, Bruno Caccia.

SGARRO IN FAMIGLIA

La vedova di Pasquale Barbarino era Teresa Schirripa, sorella di Rocco, l’unico imputato del secondo processo per l’assassinio del procuratore capo di Torino, Bruno Caccia.

I carabinieri, in quei mesi convulsi, avevano intanto arrestato l’ultimo uomo che, la sera del delitto, aveva giocato a carte con Barbarino: un operaio metalmeccanico, fondatore della comunità evangelica di Cuorgnè, Santo Pascuzzi, 42 anni.

La vittima, prima di morire, avrebbe mormorato il suo nome: «…Santo…Santo…». Ma la moglie del panettiere aveva poi detto che si trattava più semplicemente di un’invocazione a Dio.

L’operaio risultò positivo alla prova della paraffina. Aveva sparato, dunque. Una delle due armi poteva essere la sua. Ma la seconda?

Qualche tempo dopo, il giudice incriminò Rocco Schirripa, a quell’epoca quasi trentenne, per concorso in omicidio. Si era scoperto che i Barbarino-Schirripa avevano ospitato una ragazza di Gioiosa Jonica, una bella maestrina elementare, Lucia D’Avanzo, allora 19enne, su richiesta della famiglia.

La ragazza, oggetto delle attenzioni amorose di Rocco, era invece diventata l’amante di Barbarino, il cognato del presunto assassino del procuratore Caccia. Lo rivelò lo stesso Rocco alle sorelle Teresa e Carmela, coinvolte a loro volta nell’inchiesta.

La giovane fu allontanata con disprezzo e rabbia. L’agguato a Barbarino sembrava così una vendetta maturata nelle famiglie gioiosane radicate a Torino.

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STESSI PROIETTILI

Passarono altri mesi, ma l’indagine del giudice Sorbello, che aveva cercato in ogni modo di spezzare il muro di omertà delle famiglie sfiorate dai sospetti, si chiuse con un nulla di fatto.

Tutti i protagonisti, compreso Pascuzzi, uscirono di scena per «mancanza di indizi». Le sorelle Schirripa, lo stesso Rocco, che dodici anni dopo veniva definito «un alto esponente» del circuito dell’‘ndrangheta del Nord-Ovest, con il relativo sequestro di ville e conti correnti, svicolò indenne dalle indagini.

Ma ora gli investigatori stanno riesaminando con estrema attenzione quelle vecchie carte, alla ricerca di dettagli in apparenza insignificanti; di collegamenti allora impossibili.

Perché solo più tardi, la morte di Caccia e una catena di omicidi furono la prova di un’infiltrazione mafiosa che non s’è mai arrestata, da allora a oggi.

Intriga il tipo di pistola usato dal killer di Barbarino. Chissà se tra i reperti di quell’antico delitto di paese non sono stati conservati i proiettili che uccisero Pasquale Barbarino, per confrontarli con quelli che stroncarono la vita del procuratore Bruno Caccia.

Ma in questo affascinante cold case, che rischia di essere riaperto per la straordinaria concomitanza di collegamenti con l’agguato mortale al procuratore Bruno Caccia, il 26 giugno di tre anni dopo, il 1983, ucciso con cinque colpi di Beretta 7.65.

Le pistole di piazza Pinelli a Cuorgnè e di via Sommacampagna a Torino, dove fu ucciso il magistrato Caccia, non furono mai ritrovate.

E il giudice che indagò sulla misteriosa morte di Barbarino, che prima di morire aveva giocato a pinnacola in un bar poco distante dalla sua rivendita di pane, era Sebastiano Sorbello.

Il secondo magistrato torinese che doveva essere eliminato in base all’accordo tra calabresi e il clan dei Catanesi, in quella tragica estate del 1983, con la città stretta tra racket e terrorismo rosso e nero.

Caccia da parte del clan Belfiore, Sorbello – su cui era stata già portata a termine un’attenta istruttoria dai killer – dai Catanesi.

Giudici e procuratori che non si facevano «avvicinare», che colpivano le cosche senza pietà. Da eliminare.

IL PM GUMINA, DALLA SICILIA AL CANAVESE

Fu il primo magistrato della Procura eporediese a dover fare i conti con un’inchiesta sulla malavita calabrese trapiantata al Nord. Enrico Gumina, siciliano di Brolo, in provincia di Messina, era arrivato giovanissimo a Ivrea per il primo incarico di pretore dopo aver vinto il concorso in magistratura.

Un fratello era emigrato negli Stati Uniti per svolgere la professione di medico; un terzo fratello, Vincenzo, aveva superato il concorso da insegnante di scuola media superiore scegliendo una cattedra a Longarone, il paese veneto cancellato dalle acque del Vajont.

E proprio in questa immane tragedia, il 9 ottobre del 1963, morì all’età di 33 anni: il suo corpo non venne mai trovato.

Dopo l’incarico di pretore, Enrico Gumina passò a guidare la procura di Ivrea, per arrivare al vertice di quella di Biella e concludere la carriera in Corte d’Appello a Torino.

Morì all’età di 76 anni, il 26 dicembre del 2010. Di poche parole, era sempre il primo ad entrare in ufficio al mattino, sottoponendo i suoi collaboratori ad autentici “tour de force” quando si trattava di concludere gli interrogatori.

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